Caro direttore,

Tito Boeri e Roberto Perotti hanno firmato su Repubblica un appello a riformare la politica dei sussidi per scongiurare il rischio-povertà per donne e giovani. La radice dell’intervento è velatamente polemica: “Si parla molto di una riforma radicale e simultanea di tutte le tasse. Obiettivo condivisibile, ma ci si dimentica che questo strumento non ha alcun effetto sulla povertà”. La sintesi tecnica della proposta è un riordino degli ammortizzatori sociali esistenti (dalla Naspi alle Cig) con l’introduzione di uno specifico strumento “per i lavoratori autonomi che non hanno dipendenti”. Viene invece esclusa l’eliminazione del reddito di cittadinanza, semmai da riqualificare “per coprire davvero le maggiori vittime della crisi, i giovani, le donne, le famiglie numerose”. 



L’aspetto-chiave della raccomandazione appare comunque un rilancio della centralità dell’Inps (di cui lo stesso Boeri è stato Presidente su indicazione del governo Renzi, prima che il Conte-1 designasse Pasquale Tridico). Di più: all’Inps dovrebbe far capo anche un nuovo “coordinamento delle politiche attive del lavoro”, dopo il loro sostanziale congelamento durante i governi Conte 1 e 2 (e l’appello sembra rivolto al nuovo ministro “dem” Andrea Orlando, subentrato da pochi giorni alla pentastellata Nunzia Catalfo, a sua volta succeduta a Luigi Di Maio).



La drammaticità della nuova questione-povertà è incontestabile: così come quella della disoccupazione, sia “pre” che “post-Covid”. La proposta dei due economisti merita dunque ogni approfondimento utile, sia sul versante scientifico che su quello politico. All’occhio del giornalista economico, nel frattempo, non possono sfuggire alcuni spunti.

Il primo è l’emergere di una certa diffidenza verso la priorità data dal governo Draghi alla riforma fiscale, alla base della strategia Recovery. Boeri e Perotti vi scorgono – non scorrettamente, ma con tono apparentemente problematico – un ritorno d’attenzione per il rilancio complessivo e sostenibile dell’Azienda-Paese dopo la stagione Conte-2, puramente assistenzialista e del tutto de-responsabilizzata sul versante del controllo dei conti pubblici.



Come secondo tema – in Boeri-Perotti – spicca una conferma relativamente acritica del reddito di cittadinanza come strumento portante della politica economico-sociale: ciò anche dopo che la stessa Ue ha espresso forti perplessità sull’efficacia-efficienza del cavallo di battaglia elettorale di M5S. Altri appunti di riflessione riguardano certamente la strategicità assegnata all’Inps, pur dopo i test di scarsa efficienza come “sussidificio”  burocratico d’emergenza (non a caso Draghi già un anno fa aveva guardato principalmente al sistema bancario come braccio delle politiche contro-recessive). Ora – con il pretesto dell’emergenza Covid – all’Inps si vorrebbe non solo confermare la regia operativa delle politiche sociali, ma anche associarvi la guida delle politiche attive del lavoro: cioè, nei fatti, di una porzione di politica industriale e fors’anche di altre politiche (istruzione, università, transizione digitale). 

Sembra essere comunque contraddetta la distinzione, ormai acquisita a ogni livello, fra politiche di contrasto alla povertà e di rilancio dell’occupazione. Non da ultimo: all’ente di previdenza statale (di fatto un condominio fra Governo e organizzazioni sindacali nazionali) verrebbe riservato anche un compito di “forte coordinamento fra le Regioni”, perché “è l’Inps che ha i dati”. E questo avviene all’indomani di un cambio di maggioranza e di gabinetto che sembra voler stemperare le forti tensioni cresciute fra Stato e Regioni nell’anno-Covid.

Una riflessione diversa – più strettamente giornalistica – è suggerita dal confronto fra le posizioni assunte da Perotti di fronte alla crisi-Covid del 2021 e davanti alla crisi dello spread di dieci anni fa. Nell’estate 2011, allora a firma congiunta con Luigi Zingales, l’economista si fece sostenitore su Il Sole 24 Ore di un “decalogo draconiano” finalizzato al “pareggio di bilancio”, poi effettivamente perseguito dal Governo Monti su pressione dell’Ue. Fra le misure “radicali e credibili” che l’editoriale suggeriva in termini perentori, spiccava “l’incasso di 140 miliardi dalla privatizzazione delle maggiori aziende: Eni, Enel, Poste, Ferrovie, Fintecna, Cassa Depositi e Prestiti, Rai”, oltre a 30 miliardi aggiunti dalla dismissione delle municipalizzate. Poi veniva  “l’espropriazione della moderna manomorta per 50 miliardi”: il riferimento era al patrimonio aggregato delle Fondazioni di origine bancaria, ma non mancava un richiamo storico preciso alla “manomorta ecclesiastica” che “Cavour espropriò per rilanciare l’economia del Piemonte”. 

Ancora: appariva prioritario “tagliare 5 miliardi di sussidi alle imprese” – per lo più “inutili e dannosi” –  nonché togliere da tavolo “progetti faraonici e inutili” (Perotti polemizzò in seguito con il progetto Expo Milano 2015). La previdenza pubblica avrebbe dovuto essere alleggerita di almeno 6 miliardi di “pensioni inique” (e fossero o no inique, le pensioni furono effettivamente colpite dalla riforma Fornero a fine 2011, lasciando però sul campo decine di migliaia di “esodati”). Gli “stipendi pubblici più alti” avrebbero dovuto essere sforbiciati per altri 5 miliardi, mentre 3 miliardi di rette universitarie avrebbero potuto essere posti a carico di studenti e famiglie. Concludeva la lista dei consigli “draconiani” un’ipotesi di addizionale Irpef, al massimo “restituibile in caso di successo nella lotta all’evasione”.

Dieci anni dopo mancano ancora ricostruzioni analitiche di consenso sui complessi eventi geoeconomici al centro dei quali si avvitò quella crisi italiana. Esistono tuttora scuole di pensiero diverse perfino sulla dinamica centrale dell’emergenza: quel balzo dello spread che nel luglio 2011 Perotti considerava – non certo da solo – un riflesso oggettivo, corretto e indiscutibile dei mercati alla situazione finanziaria italiana. Al netto di tutte le conseguenze politiche in Italia, da allora si è coagulato un progressivo consenso negativo sulla terapia dell’austerity prescritta all’Italia da Europa e agenzie di rating e implementata dall’esecutivo Monti. Poco prima che il Covid dilagasse in Europa, Wolfgang Munchau (“draconiano” commentatore tedesco dalle colonne del Financial Times) riconobbe: “Nel 2012 il Governo tecnocratico guidato da Mario Monti impose un’austerità prociclica nel mezzo di una recessione. L’obiettivo era provare che l’Italia era in grado di rispettare le regole Ue. Il Paese non si è ancora pienamente ripreso da quello shock”. Munchau ragionava ad ampio spettro sui nessi economico-politici dell’avanzata dei populismi in tutti i grandi paesi Ue, oltreché in Usa.

L”Italia del 2011 soffriva sicuramente di un male comune ai Paesi G7, G20, Ue: le diseguaglianze socioeconomiche. Ma appariva già allora più grave il suo problema specifico: la debolezza endemica della produttività del lavoro, zavorra della competitività complessiva del sistema-Paese. L’incapacità di rispettare i parametri dell’eurozona era un sintomo – per quanto importante – non una causa di quella crisi. L’austerity “draconiana” (peraltro non realizzata perché in fondo non realizzabile) rimediò molto parzialmente al sintomo: attenuando solo nel breve periodo un disallineamento dai parametri convenzionali Ue, ma aggravando il male strutturale di lungo periodo (diseguaglianze comprese). Oggi in fondo non sorprende che chi allora tifava per il rigore tecnocratico targato Ue si trovi a promuovere una sorta di “turboassistenzialismo” targato Inps. Sembra confermare la coerenza di una visione alla fine forse più ideologica che politico-economica: non è mai prioritario preoccuparsi di come il reddito viene prodotto da chi lavora nelle imprese in un’economia di mercato. Ciò che conta è stabilire a priori come quel reddito verrà distribuito: naturalmente dallo Stato.

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