A termini di galateo istituzionale non c’è nulla di anomalo – anzi è prassi – che un alto burocrate venga ascoltato in Parlamento su temi d’attualità che rientrino nelle sue competenze. Se però il burocrate (nella fattispecie il direttore del Dipartimento Finanze del Mef, Fabrizia Lapecorella) dice alle commissioni Finanze riunite di Camera e Senato che la cedolare secca sugli affitti è una misura che danneggia l’Erario e “va a vantaggio del decimo della popolazione più ricco”, di anomalie se ne intravvedono più d’una.
Dalla burocrate di via XX Settembre giunge una singolare denuncia di “evasione legalizzata” verso i contribuenti che denunciano i redditi più alti: sbrigativamente qualificati – con gergo più politico che tecnico – come “ricchi”. Sarebbero questi “ricchi” che sottrarranno, secondo Lapecorella, 5,1 miliardi di gettito Irpef nel triennio 2021-23.
L’equazione multipla implicita (“alta dichiarazione” uguale “ricchezza” uguale “evasione”) non è nuova ed è discussa da sempre perché sfida un’evidenza: una persona fisica che “dichiara molto” ha notoriamente meno probabilità di rivelarsi un “evasore” di chi dichiara “poco” o spesso “nulla”. E l’evasore-tipo non è il contribuente Irpef che aggiunge l’affitto di un appartamento di proprietà a uno stipendio o a una pensione. Quest’ultimo, non da ultimo, è “ricco” (in termini assoluti relativi) solo nella notoria classificazione sociopolitica dell’ormai ex ministro dell’Economia Roberto Gualtieri: storico marxista ed ex quadro del Pci.
È vero che 10mila euro di affitto aggiunti, ad esempio, a un reddito dichiarato di 75mila euro all’anno, pagherebbero il doppio di Irpef rispetto alla cedolare secca ordinaria (21%): si collocherebbero in via progressiva nell’aliquota Irpef massima (43%). Ma chi, quando e perché ha pensato e deciso la cedolare secca sugli affitti delle case d’abitazione?
La misura è stata introdotta dal governo Berlusconi IV (e la burocrate che oggi ne denuncia la tendenziale “iniquità” lavorava già ai piani alti del Mef), ma la sua funzione strategica è stata definita e rafforzata come “piano casa” dal governo Letta all’inizio della legislatura di centrosinistra. La cedolare secca è stata concepita con due finalità: anzitutto sveltire la procedure di accertamento e riscossione dell’imposta (cioè aiutare i burocrati del Mef a farsi pagare le tasse dagli italiani); ma non senza un robusto obiettivo di politica social, cioè favorire l’accesso alla casa in affitto (a giovani, immigrati, famiglie meno abbienti). Per questo la cedolare secca è una norma di legge tuttora in vigore: se ne dibatte anzi la possibile estensione a negozi e laboratori artigiani, soprattutto ora in emergenza-pandemia.
Questo premesso: un politico ha ogni diritto di contestare e provare a riformare una norma di legge; un burocrate mai. Analogamente, il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, non aveva il minimo titolo – qualche giorno fa – per proporre l’estensione del Reddito di cittadinanza ai migranti: tema esclusivamente riservato al confronto politico, mentre al burocrate compete altrettanto esclusivamente di realizzare con efficacia/efficienza amministrativa le norme in vigore per decisioni di governi in carica, dopo l’approvazione del Parlamento.
Il Premier Mario Draghi – nel suo discorso d’insediamento – ha già preannunciato come sua responsabilità per la sessione di bilancio 2022 l’avvio di una riforma fiscale nell’ambito del montaggio della strategia Recovery. A che titolo una burocrate del Mef interviene oggi contro i “ricchi” proprietari di case d’affitto, peraltro già colpiti da carichi fiscali statali e locali ai limiti della patrimoniale?
Nel frattempo non è facile neppure capire di quale “tecnica” o quale “politica” abbia inteso farsi paladina Lapecorella: fra l’altro oggi alle dipendenze di un ministro tecnico (l’ex direttore della Banca d’Italia, Daniele Franco, ex Ragioniere Generale al Mef) e di un Premier come Draghi. Aiuta – fino a un certo punto – un articolo comparso sul Corriere della Sera del settembre 2008. “All’Università di Bari – era possibile leggervi – un concorso del 2002 dichiarò idonea alla cattedra l’aspirante docente Fabrizia Lapecorella, che aveva zero pubblicazioni nelle quattro categorie delle 160 riviste più importanti del mondo, zero nelle prime venti riviste italiane, zero in tutte le altre, zero libri firmati come autore, zero libri come curatrice, zero libri come collaboratrice. E ovviamente zero citazioni fatte dei suoi lavori: come potevano citarla altri studiosi, se non risulta aver mai scritto una riga? Eppure, battendo una concorrente che aveva un dottorato alla London School of Economics, 10 pubblicazioni e 31 citazioni sulle riviste nazionali e internazionali più importanti, vinse lei. Destinata a essere promossa poco più di tre anni dopo, dal terzo governo Berlusconi, direttore del Secit per diventare col secondo governo Prodi esperto del Servizio consultivo e ispettivo tributario e infine, di nuovo con Tremonti, direttore generale delle Finanze”.
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