È buona regola professionale non giudicare mai i colleghi: tanto meno di un lavoro complicato come il giornalismo. Per queste le brevi annotazioni che seguono astraggono preventivamente da ogni riferimento specifico. Si propongono solo come riflessione sullo “spirito del tempo”: bollente riguardo le fake news, fra cifre sul coronavirus e duelli tra il presidente Usa e i media.
“I trucchi dei regimi che nascondono i veri dati sul Covid .- Le differenze con le democrazie”. E poi: “Dal Brasile alla Turchia, così i regimi mentono sulla letalità del virus”. Sono i titoli di un articolo costruito accostando i dati ufficiali sulla mortalità diffusi da diversi Paesi con uno dei molti “indici di libertà” calcolati da think tank internazionali (nel caso specifico la Freedom House di Washington). Il risultato è atteso, comunque degno di registrazione: i tassi di mortalità ufficiali più alti si registrano nelle democrazie “indiscutibili”, mentre quelli più bassi (cioè “meno attendibili”) sono stati quelli comunicati da Paesi “a basso quoziente di libertà” come Turchia, Eritrea, Russia, Iran, Bielorussia Venezuela, Arabia Saudita. E, non da ultimo, come la Cina: il Paese che ha incubato la pandemia e l’ha inequivocabilmente nascosta, impedendo al mondo di difendersene. Però in pagina la Cina compare soltanto in un grafico: non viene mai nominata fra i “regimi mentitori”.
Molto più risalto – negativo – è riservato al Brasile: che tuttavia non emerge affatto, all’analisi, come Paese “canaglia”, a bassa libertà e bassa (“falsa”) mortalità ufficiale. La repubblica presieduta da Jair Bolsonaro è considerata un “Paese libero” al 75% (l’Italia è a soglia 90): più o meno come Israele e India, che hanno in ogni caso comunicato una letalità-Covid nettamente inferiore. Il Brasile esce bene – forse “troppo”… – anche dal confronto con gli Usa di Donald Trump o con la Germania di Angela Merkel: quest’ultima additata a livello globale come modello di contrasto al Covid, anche se sospettata a lungo di classificazioni restrittive dei decessi.
Di tutto sembra comunque poter essere accusato il Brasile di Bolsonaro fuorché di essere un “regime” e non invece una democrazia parlamentare, in cui si vota regolarmente. È semmai nella Repubblica popolare di Cina che non si vota mai e dove il Presidente è tornato a essere un leader a vita, circondato da un’oligarchia di tecnocrati di un partito unico e di capitalisti di Stato.
Sono passati quarant’anni da quando Jeane Kirkpatrick, ambasciatrice all’Onu di Ronald Reagan, elaborò una dottrina geopolitica che distingueva fra Stati “autoritari” e “totalitari”. Fra i primi erano largamente ricompresi i paesi dell’America centrale e meridionale: che secondo Kirkpatrick avrebbero potuto superare gradualmente gli standard delle dittature militari, ancora correnti a fine nel XX secolo. Nel 2020 il Brasile è uno degli esperimenti più riusciti. I regimi “totalitari” erano invece per lo più quelli dell’Est europeo sovietico, cui la dottrina Kirkpatrick non assegnava chance di cambiamento se non in modo traumatico, come in effetti avvenne con la caduta del Muro. Sulla Cina post-maoista nessun leader od osservatore ha mai scommesso su evoluzioni di natura politico-istituzionale, civile e sociale: neppure Henry Kissinger che ne scosse l’isolamento economico e geopolitico.
Questo naturalmente non impedisce che nella strana Italia del 2020 si possa scambiare il Brasile per la Cina: e forse la Cina per l’Italia.