Caro direttore,
come da tradizione, anche il 53esimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese si è conquistato le prime pagine grazie a un’assertiva locuzione mediatica. “Italiani favorevoli all’’uomo forte al potere’ che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni” è – all’interno delle 550 pagine del Rapporto – il titolo di una tabella. Di cui val la pena richiamare anche il contenuto: l’istogramma nazionale (48,2%) dell’indagine campionaria condotta dal Censis viene scomposto per censo (reddito annuo lordo fino a 15mila euro, 56,4%); istruzione (“al massimo licenza media”, 62,0%) e classe (operai e lavoratori esecutivi, 67%).
È un’operazione (formalmente proposta sotto i crismi della scientificità sociologica) che solleva più di un dubbio: almeno all’occhio del giornalista.
Sono trascorsi quattro mesi da quando il leader della Lega, Matteo Salvini, ha dichiarato: “Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri. Siamo in democrazia, chi sceglie Salvini sa cosa sceglie”. Parole che hanno subito ridato fuoco alle polemiche sulla presunta illiberalità di fondo della Lega, allora sul punto di essere estromessa dal governo dal “ribaltone” di agosto.
La querelle, per la verità, è stata tenuta a distanza dagli opinionisti non di parte: per i quali non ci sono mai stati dubbi sul fatto che Salvini si riferisse a una “presa di potere” del tutto costituzionale, attraverso elezioni politiche di cui il vicepremier uscente auspicava l’anticipo.
Ciò non ha tuttavia trattenuto il Censis – presumibilmente poco dopo – dall’interpellare gli italiani su un quesito che sembra perfettamente calibrato per guadagnare un “titolone” al 53esimo Rapporto (difficile che avrebbero ottenuto la stessa attenzione mediatica “il furore di vivere” o “i muretti a secco”).
L’esito mediatico è stato puntuale, ma la scelta non cessa di suscitare perplessità. È difficile non vedere l’identikit di Salvini dietro una formula alla fine meno analitica e più politicamente valutativa di quanto possa sembrare. Il Censis pare chiedere agli intervistati – in forma “sommersa” – di sottoscrivere o respingere un proprio (pre)giudizio politico. Non è facile tenere distanziato il discorso formalmente sociologico del Censis da narrazioni politico-mediatiche correnti su un Paese a rischio di “ondate nere” e teatro di “resistenze democratiche”.
Non sembra d’altronde trasparente neppure l’evidenziazione della preferenza per l’ Uomo Forte fra gli italiani con meno reddito dichiarato (classificazione sempre più vaga e insidiosa), identificati nella “classe operaia” (categoria desueta da decenni, almeno nella classica connotazione marxiana) e al di sotto del livello d’istruzione oggi obbligatorio. È una fotografia che va evidentemente rispettata in quanto risultato di un’indagine campionaria. Ma che appare poco convincente nell’angolatura e pare essere misleading nella rappresentazione offerta.
Il partito del (presunto, temuto) Uomo-Forte-che-non-deve-chiedere-al-Parlamento è maggioritario – spesso largamente – in Piemonte, Lombardia, Veneto, Trentino, Friuli-Venezia Giulia; sostiene le giunte in Alto Adige e Liguria ed è testa a testa nei sondaggi per le imminenti regionali in Emilia-Romagna. La Lega si è conquistata – del tutto democraticamente – la rappresentanza politica dell’area del Paese che produce maggior e miglior reddito, più e migliori laureati. Quella, fra l’altro, dove “anche gli operai votano Lega” perché in non pochi casi sono super-tecnici – addirittura laureati – come gli imprenditori loro datori di lavoro, tendendo a formare con essi una “classe” socialmente omogenea attorno all’impresa o al lavoro autonomo qualificato.
L’Italia con pochi soldi in tasca, poco educated e quindi relegata a “lavori esecutivi” a primo rischio nella competizione globale è altrove: è – purtroppo ancora – a Taranto. E quell’“altra Italia”, all’ultimo voto politico, non ha certo scelto il partito dell’Uomo Forte, piuttosto il suo contrario: uno strutturale “movimento” senza leader, governato in ultima istanza da una sorta di post-democrazia diretta digitale.
Da 18 mesi l’Uomo Forte che decide (anche se spesso di non decidere) in Italia è M5s: partito di maggioranza relativa in Parlamento, perno e guida di due diversi governi. E se nell’Europa di fine 2019 c’è una macro-regione dove non sono visibili pulsioni antidemocratiche (come in Germania, con un reale risveglio dell’antisemitismo), drammatiche tensioni sociali (come in Francia, governata da un Presidente Forte votato solo dal 23% dei connazionali) o lacerazioni politico-istituzionali (come in Gran Bretagna, che sta davvero uscendo dalla Ue) questa è l’Italia, dove la Lega è uscita maggioritaria dall’ultimo voto (europeo) su scala nazionale.
Nel pieno degli anni 70, fra stagflazione e terrorismo, l’istituto fondato da Giuseppe De Rita scoprì che c’era un’Italia diversa, anzi: che l’Italia era diversa da quella che veniva raccontata e perfino da quella in cui gli italiani credevano di vivere. Dopo quasi mezzo secolo quell’Italia allora realmente “sommersa” – cui De Rita ebbe il merito (scientifico) reale di riconoscere un’identità (sociale) che era reale e lo è poi diventata sempre di più – è completamente “emersa”. Non vuole Uomini Forti, come nel 1922: non ne ha bisogno. Ma non vuole neppure essere governata da Uomini Deboli: deboli a prescindere perché privi di legittimazione democratica. Colpisce che, nel 2019, lo stesso Censis guardi con sospetto quest’Italia: che è stata e resta il cordone ombelicale del Paese con l’Europa e la liberaldemocrazia di mercato.