Caro direttore,

subito dopo la Giornata della Memoria il New York Times ha pubblicato con molta evidenza una lunga conversazione con Liliana Segre. La senatrice a vita italiana ha espresso tutta la sua preoccupazione – venata di pessimismo – per il pesante ritorno di fiamma antisemita nel mondo. “Spero di non aver vissuto invano” ha affermato nel titolo la sopravvissuta ad Auschwitz, all’indomani di una Giornata inevitabilmente toccata da immagini ed echi provenienti da Gaza. Ma nel tono – sobrio e misurato – Segre ha replicato con successo quanto detto e fatto in Italia sabato 27 gennaio e nei giorni precedenti. È riuscita cioè a rendere credibile una separazione etico-culturale fra la memoria assoluta dalla Shoah e il drammatico “qui e ora” della guerra fra Israele e Hamas, tenendo assieme la solidarietà per il popolo ebraico aggredito da Hamas e il “dolore di madre per i bambini” (tutti quelli colpiti dalla guerra). Più netto – ma non meno asciutto – il virgolettato della Segre ieri sera, a margine di un evento milanese al Memoriale della Shoah: “Non rispondo delle azioni di Israele”. Parole che hanno solo confermato il perché il quotidiano newyorchese abbia mobilitato il suo corrispondente in Italia.



La storica testata portavoce della comunità ebraica statunitense è alle prese con la stessa emergenza politico-culturale che la senatrice italiana ha mostrato di saper affrontare, principalmente grazie a un’inattaccabile autorevolezza personale acquisita in decenni di impegno contro l’antisemitismo. Ed è esattamente di quella voce che il NYT avverte la mancanza e quindi la necessità nello sviluppo di una strategia comunicativa di distinzione fra antisemitismo e antisionismo.



Una missione per alcuni versi ai limiti dell’impossibile, allorché l’assimilazione della critica a Israele al razzismo antiebraico è invece divenuta da anni un mantra politico-mediatico quasi scolpito nella pietra fra Gerusalemme, Europa ed America. In base a esso, l’antisionismo non sarebbe che antisemitismo con altri mezzi; dissentire da Gerusalemme non sarebbe cosa diversa che negare la Shoah e chi contrasta Israele sarebbe mosso da un ancestrale odio razziale (lo stesso della Russia zarista o della Germania nazista, piuttosto che in passato dell’Inquisizione spagnola) e non dalla valutazione storica di una crisi geopolitica irrisolta come quella palestinese.



A Manhattan (al centro della più grande metropoli israelita del pianeta) è stata via via più evidente, nelle ultime settimane, la presa di coscienza del rischio che la condotta della guerra di Gaza da parte del governo Netanyahu potesse ledere seriamente il valore della Giornata della Memoria, simbolica di tutte le pretese legittime dell’ebraismo mondiale. L’ennesima crisi mediorientale ha già creato pesanti danni collaterali a un bastione dell’ebraismo contemporaneo come la Harvard University: qui la presidente Claudine Gay, donna afro, è stata vittima di una rimozione sommaria per non essersi opposta alle proteste pro-palestinesi nel campus, in nome della libertà costituzionale di pensiero e parola. Ma il pericolo più grave – certamente dal punto di vista del NYT, caposaldo “dem” – è che le strategie politiche e personali di Netanyahu si ri-sostengano a vicenda con quelle dell’ex presidente Donald Trump – ora ricandidato sulla cresta dell’onda – e finiscano per condizionare la campagna elettorale e quindi il voto nelle prossime presidenziali americane a sfavore di Joe Biden.

Se il NYT è corso a dar spazio a Segre quarantott’ore dopo la Giornata della Memoria è perché sta registrando un’efficace frenata nello schieramento dei propri opinion-maker: quasi tutti prestigiosi esponenti o studiosi contemporanei dell’ebraismo, ma lontani dall’esperienza vissuta dell’Olocausto e – soprattutto – inevitabilmente “partisan” nella fortissima polarizzazione corrente della società americana, comunità israelita compresa. E il mondo accademico della East Coast (siamese dei grandi media di New York e Washington) appare il meno tranquillo e quindi il meno credibile nella ripresa delle culture war attorno al dualismo antisemitismo/antisionismo.

L’esemplare “battaglia di Harvard” non si è affatto conclusa e continua proprio su questo fronte. In attesa di individuare il successore di Gay, il campus di Boston – il più antico degli Stati Uniti – ha nominato una task force per ricostruire una politica di contrasto all’antisemitismo dopo lo showdown autunnale. Il presidente ad interim dell’ateneo (il medico-economista Alan Garber, israelita) ha chiamato come co-presidente del nuovo organismo un prestigioso professore di studi ebraici, Derek Penslar (israelita, oggi a Toronto, in passato anche ad  Harvard). Penslar ha dedicato la vita a studiare la diaspora ebraica e i suoi incroci con il colonialismo europeo, fino alla Shoah e alla nascita di Israele. La sua attività di ricerca ha riscritto una storia mondiale dell’antisemitismo: ma questo non ha impedito allo studioso di assumere posizioni personali molto critiche sulle politiche di Netanyahu verso i palestinesi e – più in generale – sulle traiettorie storico-culturali del movimento sionista. È stato però questo curriculum a suscitare reazioni polemiche immediate alla sua chiamata ad Harvard: da parte di quegli stessi ambienti ebraici (israeliani o americani vicini al partito repubblicano) che avevano premuto per le dimissioni della Gay attraverso alcuni grandi donatori dell’ateneo.

Sul “caso Penslar” il NYT è parso nuovamente a disagio – come una parte importante della comunità ebraica d’Oltre Atlantico – dopo aver esitato a difendere Gay a fine 2023. Ma la guerra di Gaza ha aperto fratture nello stesso quotidiano. Per l’editore (la famiglia Ochs-Sulzberger, proprietaria da quattro generazioni) la “sicurezza della Stato ebraico” resta un postulato storico non discutibile. Me nel corpo redazionale – soprattutto fra i giornalisti più giovani, più attenti alle proteste dei campus liberal – una linea sostanzialmente pro-Netanyahu è sempre meno gradita: tanto che si è formato un “caucus” con il fine dichiarato di vigilare sul pluralismo informativo sulla guerra.

Su questo sfondo, lo spazio di primo livello riservato alla senatrice italiana pare costituire un segnavia rilevante nella ricerca faticosa di punti d’equilibrio nel racconto della crisi ebraico/israeliana; e quindi nel tentativo di farla uscire da un pericolosa strada senza uscita apparente. E una 93enne reduce europea da Auschwitz può rivelarsi più saggia e preziosa della ben più nota Nancy Pelosi, ex Speaker “dem” della Camera di Washington. La quale non ha trovato niente di meglio che invocare indagini dell’FBI sugli studenti pro-palestinesi sospettati apertamente di essere agenti provocatori al soldo della Russia putiniana.

La mossa di Pelosi ha subito richiamato la più famosa e famigerata “caccia alle streghe” della storia americana: quella aizzata dal senatore (repubblicano) Joe McCarthy negli anni 50 del secolo scorso. Di quella campagna – rivolta contro le vere o presunte infiltrazioni spionistiche sovietiche negli Usa – furono vittime principali gli ebrei: immigrati di prima e seconda generazione fuggiti da pogrom zaristi o dai campi di sterminio nazisti. Al culmine, i coniugi Rosenberg furono giustiziati, in una degenerazione paranoica della vita pubblica magistralmente rievocata nel film “Oppenheimer“, candidato a 13 Oscar. Dall’ennesimo capolavoro di Christopher Nolan non è giunto solo un allarme sui rischi di manipolazione politica della ricerca scientifica, ma – prima ancora – un appello a lasciare sepolte guerre mondiali e cacce alle streghe nel secolo breve e terribile, fra il 1914 e il 1989.

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