Negli ultimi giorni gli Stati Uniti hanno cominciato a preoccuparsi di un possibile razionamento del diesel sulla costa est: New York, Boston, Filadelfia, Washington e Baltimora, per citare alcune delle città più famose. La genesi, lo sviluppo e la “soluzione” di questa vicenda ci riguarda tutti. Il diesel non è particolarmente popolare tra le famiglie americane, che preferiscono i motori a benzina, ma muove i trasporti, l’agricoltura e la logistica e quindi è fondamentale per l’economia, gli approvvigionamenti e le catene di fornitura. 



Negli ultimi dieci anni il numero di raffinerie che producono il distillato sulla costa orientale si è dimezzato. I margini di raffinazione sono deboli da dieci anni, la crisi del 2008 non ha aiutato, la transizione “green” e un approccio generalmente ostile della “politica” ha fatto pendere le decisioni delle società di raffinazione verso la chiusura; da ultimo il percorso per autorizzarne di nuove è particolarmente complicato. Nel 2009 la costa orientale poteva raffinare 1,64 milioni di barili di petrolio al giorno, oggi solo 818mila: la metà esatta. Il prezzo del diesel è già aumentato molto negli ultimi mesi e oggi si rischia lo spettro dei razionamenti. Se i camion non girano, non arrivano i prodotti nei supermercati e l’agricoltura soffre in una fase in cui le riserve di grano e di alimentari sono ai minimi; è persino inutile specificare cosa possa comportare questa situazione dal punto di vista economico e sociale.



Due giorni fa Nancy Pelosi ha ventilato la possibilità di approvare una legge che fissi il prezzo alla pompa e metta un limite ai profitti. Un settore che viene da dieci anni di crisi economica verrebbe quindi “punito” per il rincaro dei prezzi. È un settore che subisce l’ostilità della politica e che non è particolarmente popolare. L’intervento dello Stato è tutto fuorché un incentivo a costruire nuova capacità, dato che per mettere in piedi una nuova raffineria servono anni e oggi bisogna fare i conti con il rincaro delle materie prime e delle componenti e in alcuni casi con la loro indisponibilità. Oltretutto, dopo il primo intervento statale tutti si chiederebbero se per caso non ne arrivi un secondo e poi un terzo e così via. A queste condizioni l’unico esito certo è il razionamento e un’offerta di diesel strutturalmente inadeguata alla domanda. 



In una situazione di questo tipo, con il rischio concreto che le catene di fornitura della costa orientale americana vengano compromesse, la politica spinge – si veda il discorso sull’economia di Biden di martedì – sulla “transizione energetica”. Su questa transizione ci sono due certezze: la prima è che è costosissima, la seconda è che per i prossimi dieci anni almeno, nella migliore delle ipotesi, serviranno ancora gli idrocarburi. È costosissima come ci dicono tutti i giorni i principali organi di informazione globali, dal Financial Times e Bloomberg in giù, perché bisogna costruire ex-novo un’alternativa a quello che c’è già e perché nessuno ha ancora risolto la questione, anche questa irrisolvibile nei prossimi dieci anni, dell’immagazzinamento di fonti che nascono e muoiono, non programmabili e volatili. 

L’obiezione quindi è che costruire una nuova raffineria sarebbe una scusa per rimandare la transizione; nessuno si chiede quale sia l’investitore privato che costruisca in due anni un impianto che dovrebbe chiudere tra dieci. Nel frattempo, a brevissimo, si rischia, per mancanza di diesel, di non trovare pasta e prosciutto al supermercato. 

Tutto questo ricorda un’altra fase storica. Pare che la regina Maria Antonietta abbia consigliato di risolvere la mancanza di pane che affliggeva una folla in ebollizione consegnando brioches. Oggi, a una folla che rischia di non avere il pane domani per mancanza di diesel, si consigliano pale eoliche, pannelli solari e macchine elettriche che, forse, saranno una soluzione per 7 miliardi di persone, o anche solo per il “primo mondo”, tra vent’anni. Magari questa volta l’esito sarà diverso. Oppure no. 

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