Non sorprende affatto che un grande critico contemporaneo come Claudio Magris difenda il “grande poeta” Gabriele D’Annunzio, colpito da una fatwa politico-culturale a Trieste. Sorprende ancor meno rammentando come, tra i mille impegni di una vita votata alla dignità della cultura europea, l’intellettuale (triestino) abbia trovato modo di partecipare da protagonista a un circolo letterario speciale ed esclusivo: quello che Enrico Cuccia raccoglieva in Mediobanca, generalmente il sabato pomeriggio.
Quell’Italia laica e liberale del Novecento – che prima convisse con il ventennio mussoliniano, poi gli sopravvisse con successo per decenni nella Repubblica – leggeva e sapeva leggere. Riuscì perfino a strappare un “suo” Nobel per la letteratura: quello assegnato nel 1976 a Eugenio Montale, nel centenario del Corriere della Sera, di cui il poeta fu grande firma (fu pareggiato allora, fra l’altro, il conto con il Nobel “anomalo” riscosso nel 1959 da Salvatore Quasimodo).
Certamente quell’Italia “afascista” che aveva il suo cardine nelle banche milanesi, dove Raffaele Mattioli ri-editava i classici italiani, non poté apprezzare Grazia Deledda, Nobel 1926: una “quota rosa” ante litteram, imposta a Stoccolma da un regime in forte ascesa in Europa e già abile nella comunicazione politico-culturale “corretta” per i tempi. Di sicuro, invece, quell’Italia liberale sapeva quale stella di prima grandezza nel firmamento letterario fosse il siciliano Luigi Pirandello: cui nel 1934 fu sufficiente – al primo tentativo di Nobel – la candidatura secca di Guglielmo Marconi, premiato per la Fisica nel 1909 e presidente dell’Accademia d’Italia (bandireste Marconi e Pirandello dalla memoria italiana come ad Harvard vorrebbero cancellare Cristoforo Colombo dalla storia americana?)
D’Annunzio – come hanno rivelato le carte desecretate dall’Accademia svedese – in 37 anni non fu mai candidato al premio, né dall’Italia né dall’estero. Eppure quando il Nobel fu assegnato per la prima volta a un italiano – a un poeta, Giosué Carducci, nel 1906 – il letterato abruzzese era già una star della cultura europea. Ma era già allora un simbolo assoluto di “scorrettismo”, anzitutto sul piano professionale. Scriveva instancabilmente di tutto (anche per il neonato cinema, anche per il nascente marketing aziendale) e in più lingue; vendeva moltissimo e incassava di conseguenza, anche se il suo stile di vita (che condivise con Oscar Wilde e fu copiato da Truman Capote e più tardi dalle rockstar) gli costava di più. Era un intellettuale ultra-impegnato: fu parlamentare in entrambe le “estreme” di allora e combatté per davvero nella Grande Guerra, non come storyteller di retrovia. Per non parlare dei venti mesi della Repubblica di Fiume: un’invenzione geopolitica decisiva per la nascita dell’Italia fascista. Che tuttavia D’Annunzio non riconobbe mai come sua, anzi.
Mussolini ne temette sempre la statura e lo tenne recluso nella cornice dorata del Vittoriale. Il Duce sapeva per primo che la levatura culturale internazionale del Vate era l’opposto della sua Italietta provinciale, strapaesana. Ogni riga scritta da D’Annunzio umiliava quella del maestro di scuola reinventatosi giornalista e politico. Uno – ricorda Magris – ha lasciato i vertici lirici di Alcyone o un romanzo come Il piacere, possente reportage-manifesto in presa diretta sulle classi dirigenti dell’Italia post-unitaria. L’altro vergava frettolosi editoriali-slogan dell’Avanti o del Popolo d’Italia. È vero che il ceto industriale del Nord che pagava a D’Annunzio il brand “La Rinascente” era lo stesso che finanziò la svolta autoritaria degli anni Venti. Però il poeta rimane un artista assoluto della lingua italiana e un’icona stagliata di vita fondamentalmente libera. Mussolini fu sempre e solo un avventuriero politico votato alla dittatura. L’opera del primo è ancora viva nell’Italia di oggi. Il secondo ha finito la sua parabola a piazzale Loreto nel 1945.
Un Paese con una storia e un’identità – avverte un intellettuale rigorosamente antifascista come Magris, a cent’anni dalla nascita dei Fasci mussoliniani – non può mai permettersi di usare male la sua storia (con essa si deve invece sempre confrontare con gli strumenti di una cultura aperta); né di giocare la sua identità alla roulette del marketing politico-culturale del momento. Per esempio: una fiera di libri – un una società democratica – ha il diritto di escludere un libro, un autore, un editore, assumendosene ogni responsabilità. Perfino un’amministrazione comunale può essere contraria a un monumento. Ma non strattoniamo una figura come D’Annunzio. Lasciamolo in pace e continuiamo a studiare come – certamente non unico, ma fra i più grandi – il Vate abbia dato presente e futuro a una dimensione fondante quale sempre è una lingua nazionale.
Forse è tardi – o poco rilevante – capire quanto D’Annunzio sia stato un progenitore di ciò che oggi chiamiamo “Made in Italy” (il contrario di ogni “sovranismo economico”). Non sembra invece tardi per riflettere su come e perché, ancora alla fine del secolo scorso, la Repubblica italiana chiamasse come senatore a vita l’avvocato Gianni Agnelli e non l’ingegner Enzo Ferrari. Che chissà quando potrà mai lasciare il Purgatorio degli Scorretti.