Nel vasto e furioso incendio propagatosi fra le università americane attorno alla guerra di Gaza, un focolaio si è spento apparentemente senza ustionare nessuno: né gli studenti e i docenti, né le autorità accademiche; e senza scomodare poliziotti o politici. È accaduto alla Rutgers University, ateneo statale del New Jersey, a poche decine di miglia dalla newyorkese Columbia. E fra i 585mila “alumni” Rutgers sparsi sul pianeta c’è anche Melvin Schlein, padre di Elly, attuale leader del Pd italiano. Nel New Jersey – dov’è nato da una famiglia di emigrati israeliti dall’Europa – papà Schlein ha ottenuto laurea e dottorato e ha iniziato un lungo cursus di politologo, concluso alla Franklin University in Svizzera. Negli anni 60 del secolo scorso il giovane Schlein si segnalava per un vivace attivismo nelle fila dei dem radicali, all’epoca delle marce contro la guerra in Vietnam e per i diritti delle minoranze afro.
Sessant’anni dopo, alla Rutgers – che ha quasi tre secoli di storia – altri studenti attivisti anti-guerre e pro-minoranze hanno allestito una tendopoli di solidarietà con i palestinesi, gemella di decine di altre oltre Atlantico. Ieri – 36 ore dopo lo showdown alla Columbia e alla Ucla – hanno però accettato di cessare l’occupazione: loro pure sotto la minaccia di uno sgombero, ma non prima di aver raggiunto un accordo di massima con il rettore Jonathan Holloway (uno storico di origini hawaiane, primo “non bianco” al vertice Rutgers, di tradizionale orientamento “democrat”).
L’intesa – pubblicata sul portale del campus – è articolata nelle risposte a 10 richieste avanzate dai “protestanti”. Due le questioni-chiave, comuni ad altre “rivolte” studentesche filopalestinesi: l’impegno dell’università (che ha un patrimonio finanziario di circa 2 miliardi di dollari) a disinvestire completamente da attività israeliane; e a interrompere ogni accordo di cooperazione in corso con la Tel Aviv University. Su entrambi i punti la risposta delle autorità accademiche Rutgers è chiaramente interlocutoria, ma non chiusa a “revisioni” delle attuali politiche, anche attraverso il confronto con il corpo studentesco.
Fra gli altri 8 punti – questi invece accolti in linea di principio – alcuni appaiono di natura prevalentemente simbolica: l’autorizzazione ad esporre bandiere di Palestina, Kurdistan e Kashmir; oppure l’impegno ad assumere la parola “Palestina” nel lessico corrente dell’università (non va dimenticato che i maggiori media Usa utilizzano invece sulla crisi mediorientale regole di scrittura particolarmente ripulite dalla politically correctness).
Altre questioni appaiono invece più di sostanza, in chiave di “affirmative action” per una volta non declinata a favore delle classiche minoranze LGBTQ+ oppure afro. Un passo che riflette presumibilmente il fatto che il 10% circa degli 67mila studenti Rutgers è di etnia araba (fra di essi alcuni palestinesi) e/o di confessione islamica (non è invece noto quanti siano gli israeliti). L’ateneo si è detto infatti disponibile a valutare l’accoglienza con borsa di studio di almeno 10 studenti palestinesi “displaced” nella distruzione di Gaza; a studiare un accordo con la Birzeit University di Ramallah; a creare un Arab Cultural Center in ciascuno dei tre campus (Newark, New Brunswick e Camden). Non manca poi la disponibilità a rafforzare aree di ricerca e insegnamenti legati alla storia e alla civiltà mediorientale e palestinese, e ad assumere nella divisione Diversity-Equity-Inclusion alcuni “senior administrator” con reali competenze nel dialogo con le comunità studentesche araba, musulmana e palestinese e attenzione specifica ai fenomeni di islamofobia.
È presto per capire se e in che misura l’accordo verrà concretizzato (anzitutto: se – anche in extra-time – potrà essere un canovaccio mediatorio utile ad abbassare la temperatura in altri atenei occupati e ad allentare la pressione sul presidente Joe Biden in avvicinamento alla convention “dem” di Chicago). Nel frattempo sarebbe però certamente interessante conoscere l’opinione di Melvin ed Elly Schlein.
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