Già il fatto che Mario Monti si affacci sulla prima pagina di Repubblica è una notizia. Il senatore-presidente della Bocconi è stato per decenni editorialista identitario, euro-ambrosiano, del Corriere della Sera: trampolino prima per l’Antitrust Ue e poi per palazzo Chigi, con laticlavio a vita. Il solo connotato meneghino di Repubblica è invece – da soli quattro mesi – la direzione di Carlo Verdelli. Per il resto il quotidiano romano non ha mai funzionato da interfaccia strategica fra Governo, impresa e finanza, fra Italia ed Europa. È invece da sempre laboratorio potente e autorevole di pura politica: come quella che si va peraltro consumando a Roma, attorno alla crisi virtuale dell’esecutivo Conte e alla prospettiva (un po’ raffreddata nelle ultime ore) di ribaltone verso una maggioranza M5S-Pd.



Monti non è nuovo a schierarsi – se necessario con maniere rudi – nei passaggi decisivi. La prova massima agli annali è certamente il suo avvento, nel 2011, come premier-esecutore dell’austerity Ue dopo la brutale eliminazione di Silvio Berlusconi (che pure l’aveva designato a Bruxelles, assieme a Emma Bonino). Ma nessuno dimentica, in precedenza, il suo contributo alle spallate mediatiche contro il Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, nell’estate 2005. Fra una Banca d’Italia che voleva sbarrare il passo alle Opa delle grandi banche estere nella penisola e l’asse fra City di Londra (dove la Goldman Sachs di Mario Draghi era impegnata nella partita Bbva-Bnl) e l’Ue di Bruxelles (dove l’Antitrust dell’olandese Neelie Kroes era scatenata a promuovere gli interessi dell’olandese Abn Amro su AntonVeneta). 



Monti non ha mai mostrato dubbi e ed è sempre stato sulla barricata. Così come sostiene oggi la capitana Rackete, nella sua visione le frontiere italiane dovevano essere rigorosamente aperte per consentire ad altri sistemi-Paese della Ue – e alla stessa Commissione di Bruxelles – di realizzare i loro disegni sull’Italia, validi e indiscutibili a priori nel loro “europeismo”. E se qualcuno vi resisteva – anche se, come Fazio, nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali – andava combattuto e abbattuto per principio in nome di “Europa e mercati”: una legalità fin da allora giudicata da Monti superiore rispetto a quella della democrazia repubblicana italiana. La caccia a Fazio si concluse d’altronde in modo esemplare: non solo il Governatore fu rimosso da via Nazionale – con la collaborazione attiva delle Procure di Milano e Roma -, ma subì pure condanne in primo grado per aver “mal vigilato” sul sistema creditizio (e poco importa se Abn Amro fallì poi già prima del 2008 e se il rimpatrio forzato di Antonveneta dall’Olanda fece in seguito fallire Mps).



Il percorso di Draghi, nel frattempo, è stato a lungo parallelo a quello di Monti. Direttore generale del Tesoro all’epoca delle privatizzazioni mentre l’economista bocconiano approdava a Bruxelles a sorvegliare le euro-liberalizzazioni, Draghi torna in Italia dopo la parentesi londinese proprio per succedere a Fazio in Bankitalia. E quando Monti viene chiamato da Giorgio Napolitano premier tecnico si ritrova a gestire il menu-austerity firmato anche da Draghi, appena designato al vertice della Bce.

Otto anni dopo il presidente uscente dell’Eurotower è indiziato – e talora invocato – da molti di diventare super-premier “salvifico” per un’Italia schiacciata soprattutto dalla lunga recessione lasciata dal Governo Monti e non superata nel quinquennio di centro-sinistra. Il Senatore a vita è naturalmente di nuovo in prima fila e denuncia: “La nostra politica estera è ridotta a dire all’Europa: prendetevi i migranti e non rompeteci le scatole sui conti”. Chissà se si rende conto che se la Lega è forza di governo da un anno e ora è accreditata dai sondaggi di un gradimento superiore al 37% è esattamente perché l’opinione pubblica (la stessa che nel 2013 ha tributato a Scelta Civica un fallimentare 10% mentre la Lega Nord era poco sopra il 4%) è chiaramente convinta che sia l’Europa da tempo nemica dell’Italia e non viceversa, come ha affermato Monti ieri mattina sulla prima di Repubblica. E il problema non è l’Italia inadempiente rispetto all’Europa, ma quest’ultima abusiva nell’utilizzo delle sue regole a fini di lotta politica e competizione fra Paesi.

Nel frattempo Draghi, opportunamente, tace. È da tempo l’uomo pronto a fare “qualsiasi cosa” pur di salvare l’eurozona e lascia in consegna a Christine Lagarde una politica monetaria impostata in chiave autenticamente “europeista”, nell’interesse di tutti i Paesi dell’Ue-19. E sulle sue decisioni ha immancabilmente raccolto il consenso della maggioranza dell’esecutivo e del “consiglione” Bce. Dove a ritrovarsi isolato è stato spesso il presidente della Bundesbank. Che neppure stavolta è riuscito a salire all’ultimo piano della banca centrale di Francoforte.