Forse sono rimasti in pochi a ricordare che Antonio Di Pietro fu eletto per la prima volta in Parlamento in un voto suppletivo: come quello cui si è candidato ieri Luca Palamara, lui pure protagonista di una turbolenta uscita dai ranghi della magistratura.

Il campione di Mani Pulite si presentò nel 1997 nel Mugello: collegio senatoriale toscano allora blindatissimo dal Pci-Pds e liberato da Pino Arlacchi, nominato vicesegretario generale dell’Onu. Di Pietro non partì da zero, tutt’altro: dal maggio 1996 era ministro dei Trasporti nel Prodi 1, dopo il voto-ribaltone che cancellò la prima delle tre vittorie elettorali di Silvio Berlusconi. La figura più discussa della storia italiana recente riemerse direttamente nel governo di centrosinistra – in veste di ministro “anti-corruzione” – dopo il clamoroso (anche se a tutt’oggi misterioso) addio alla toga deciso a fine 1994, durante il processo Enimont, al culmine di Tangentopoli.



Due anni e mezzo dopo, il “contest” utile alla legittimazione parlamentare del “magistrato per eccellenza” non ebbe storia nella Toscana più rossa: salvo che per la presenza folkloristica e provocatoria, come contendente per il centrodestra, di Giuliano Ferrara, ex funzionario del Pci trasmigrato nel Psi craxiano prima di approdare al Berlusconi 1 come ministro dei Rapporti con il Parlamento.



Il successo scontato a quelle suppletive non fu tuttavia la premessa di un futuro politico particolarmente radioso per Di Pietro: che fu poi confermato nel Prodi 2, per uscire tuttavia quasi subito di scena; mentre i cascami giustizialisti di Italia dei Valori sono oggi appena riconoscibili in M5s. La magistratura, d’altronde, fu sempre attenta a non scommettere mai davvero su quel “cane sciolto”: utile a contrastare il decreto Conso nell’estate 94; non certo affidabile per il prosieguo della “guerra dei trent’anni” contro il Cavaliere.

È vero che Italia dei Valori ha fatto a tempo a fare da incubatrice a Luigi de Magistris: il Di Pietro del Sud che fece il salto dalla magistratura alla politica in occasione della morte prematura del Pd. Fu de Magistris a condurre la controversa inchiesta su Clemente Mastella, allora ministro del Prodi 2. Il governo cadde e da allora Prodi ha sempre mancato gli obiettivi personali o politici; il neonato Pd di Walter Veltroni riportò al debutto una sconfitta storica e da allora non si è mai imposto in un voto democratico. De Magistris dovette lasciare la toga, ma fu l’inizio di un cursus politico quanto meno vivo nell’estate 2021: quando l’ex pm sta ultimando un doppio mandato come sindaco “arancione” di Napoli, dopo essere stato europarlamentare dipietrista. E non è finita: de Magistris, nato come inquirente d’assalto alla Procura di Catanzaro (oggi guidata da Nicola Gratteri) si sta riaffacciando in Calabria come candidato presidente della Regione, in un voto, per certi versi, “suppletivo”.



È invece precipitata da tempo la meteora di Antonio Ingroia: che a differenza di Di Pietro e de Magistris ha posto l’impegno politico come scelta deliberata di prosecuzione “con altri mezzi” del cursus di pm. Con l’obiettivo di stimolare una “Rivoluzione civile”, il brand della formazione politica con cui Ingroia si candidò premier al voto politico 2013. Un completo buco nell’acqua: da cui il mancato leader (che puntava a “correggere gli errori della democrazia”) uscì con tutte le ossa rotte. Troncata la carriera giudiziaria, Ingroia ha provato a ripartire come pubblico amministratore all’ombra della giunta Crocetta in Sicilia: ma non senza qualche incidente di percorso.

Rispetto a questi tre casi di studio, ancora relativamente freschi, l’avventura di Palamara si propone come “quartum genus”. È un reietto dall’ordine giudiziario come de Magistris, l’ex boss di Unicost, ma su un livello decisamente superiore: è stato espulso per aver denunciato “il Sistema” della sua corporazione, non per aver attaccato un politico inattaccabile per definizione come era ancora un quindicennio fa un ministro di un governo Prodi. Però è un presunto colpevole per le manovre in Csm, anche se a dirlo sono i suoi colleghi (totalmente coinvolti nella crisi della magistratura) e non è ben chiaro per quali reali ipotesi di reato.

È una star mediatica come Di Pietro, Palamara: ha già fatto del suo caso un bestseller ed ha già marcato il territorio dei talk show tv di prima fascia. Però non è il pm di una fase drammatica della storia nazionale come l’estate 1993. Non è un eroe indiscusso presso una vasta opinione pubblica.

Non è neppure un campione del giustizialismo mediatico-politico: quello incarnato, per intenderci, da Piercamillo Davigo e narrato da Marco Travaglio. A proposito: per le suppletive di Roma circola da tempo il nome letteralmente a cinque stelle di Giuseppe Conte. Pure l’ex premier post-grillino è in cerca di una legittimazione parlamentare: non diversamente da Enrico Letta a Siena. Chissà se Palamara – diversamente da Ferrara ventiquattro anni fa nel Mugello – otterrà l’effetto immediato di tenere Conte alla larga da suo primo test elettorale.

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