La pre-offerta “amichevole” di Kkr su Tim – per un impegno annunciato di 33 miliardi di euro – è in sé inferiore alla “madre di tutte le Opa” di 22 anni fa. Allora Olivetti – piattaforma di lancio della “razza padana” di Roberto Colannino & C – mise in campo 100mila miliardi di lire (cioè più 50 miliardi di euro, naturalmente dell’epoca), anche se l’offerta alla fine non raccolse più del 52% del capitale (e furono decisivi gli apporti dei pacchetti del Tesoro e di Bankitalia). C’è però già più un elemento di consonanza fra le due vicende: l’assenso non del tutto silenzioso del centrosinistra a un piano partorito da Wall Street.
Tace o quasi il leader Pd Enrico Letta: nonostante poche settimane fa sia stato rieletto in Parlamento a Siena con posizioni stataliste-sovraniste sulla crisi Mps. Anche in Tim – secondo l’allarme subito lanciato dalle maggiori organizzazioni sindacali – sarebbero a rischio decine di migliaia di posti, ma la cosa sembra preoccupare al massimo Antonio Misiani, viceministro dell’Economia nel Conte-2, oggi fuori dall’esecutivo Draghi e lontano dal Segretario. Che invece non dimentica di essere stato “esule” per anni nella Francia di Vivendi e Vincent Bolloré: cioè del primo azionista di Tim e di grande azionista di Mediaset, da poco “riconciliato” con Silvio Berlusconi. La Francia che venerdì firmerà con l’Italia l’ambizioso “Trattato del Quirinale”. La Francia che sta per votare la riconferma o meno di Emmanuel Macron alla presidenza (e Bolloré è al momento schierato con il controverso Eric Zemmour, nel centrodestra)
Ma perfino nella sinistra estrema sembra prevalere un attendismo tattico. Contro Kkr (ma anche contro una possibile contro-Opa della francese Vivendi) si è levata la voce di Stefano Fassina: non certo quella di Massimo D’Alema, Premier nel ’99 e gran supporter dei “capitani coraggiosi” italiani appoggiati dall’artiglieria pesante americana.
Due sole posizioni sono emerse in tempo reale, con toni politici coerenti: quelle dei leader della Lega, Matteo Salvini, e di Fdi, Giorgia Meloni. Entrambi hanno contestato giochi puramente finanziari su quella che rimane una grande Azienda-Paese: anche se il Paese non sembra aver fatto la sua parte nel valorizzarla, dopo la privatizzazione del 1997. Gli azionisti italiani via via succedutisi (dagli Agnelli alla razza padana, da Pirelli a Mediobanca-Generali-Intesa) non hanno saputo proiettare nel futuro una grande fabbrica di information & communication technology: che anche negli ultimi anni è rimasta in stallo, consentendo la scalata di Vivendi. Né l’intervento limitato della Cassa depositi e prestiti, né il giro di valzer del fondo Elliott hanno consentito al Ceo Luigi Gubitosi di manovrare a dovere, anche sullo scacchiere del piano nazionale Banda Larga.
Adesso sull’ex Telecom Italia si allunga l’Opa dell’ennesima Opa, anzi di una possibile “guerra di Opa” fra investitori non italiani. L’interesse del sistema-Paese è dubbio. Mentre è certo il gradimento (ennesimo) del centrosinistra: forse interessato a giocare anche al tavolo Tim la partita del Quirinale, con Silvio Berlusconi. Per l’ennesima volta leader di Forza Italia, ma anche patron di Mediaset.
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