Elly Schlein ha disertato il Parlamento italiano nel giorno del voto per il rinnovo del sostegno italiano all’Ucraina. Era un momento annunciato di prima verifica per la nuova leader Pd su un dossier politico “hard”: diverso da quelli “cheap” sui diritti civili agitati quotidianamente sui media e nelle piazze. Schlein ha invece preferito “passare” la mano, forse proprio perché dall’altra parte del tavolo c’era personalmente la premier Giorgia Meloni. “Elly” è volata a Bruxelles: dove, peraltro, è parsa inseguire (e marcare da vicino) Meloni, impegnata nella due giorni del Consiglio europeo.
La neo-segretaria dem ha invece partecipato a un vertice di leader del Pse: la casa europea dei socialdemocratici. Ha incontrato molti europarlamentari del gruppo S&D, a un anno dal nuovo voto per Strasburgo. Ha avuto un faccia a faccia con la premier finlandese Sanna Marin: molto popolare in Italia e probabile “candidata di punta” (cioè alla presidenza della Commissione Ue) per il Pse nel 2024. Si è confrontata con Pedro Sanchez, premier socialista spagnolo, un Paese euro-mediterraneo come l’Italia. Tutti contatti di importante accreditamento internazionale: per una leader che vanta quattro nazionalità (italiana, svizzera, statunitense, oltre a un’ascendenza paterna israelita). Ma – al di là del rituale richiamo della leader Pd alla “rete europea contro le destre” – sono risultati anche incontri politicamente in chiaroscuro.
Il gruppo socialdemocratico a Strasburgo è nella tempesta dopo il “caso Panzeri”. Lo scandalo dei pagamenti corruttivi da Paesi islamici – su cui sta indagando la magistratura belga – è nato fra gli europarlamentari Pd e sta scuotendo la credibilità dell’intera istituzione portante della democrazia Ue. Marin, dal canto suo, sta passando alla storia del suo Paese come la premier che ha portato Helsinki nella Nato: interrompendo una storica neutralità fra Occidente euramericano e Russia. Madrid, infine, è una capitale “hardline” sul fronte migratorio: molto più dell’Italia di Meloni, che invece Schlein bersaglia quotidianamente sulle spiagge degli sbarchi. Tuttavia è difficile non scorgere un approccio strutturato, metodico, nella “fuga in Europa” della segretaria Pd: lontano sia dalle asperità (non piccole) che l’attendono all’interno del partito; sia dalla lunga check-list di definizione della linea politica del partito, impossibile da ridurre a un girotondo arcobaleno.
In Europa i socialdemocratici rimangono invece pilastri della grande coalizione “legittimista”, storicamente estesa a popolari e liberali (a Strasburgo è invece l’Ecr di Giorgia Meloni a essere all’opposizione). Fino a due anni fa presidente dell’europarlamento era David Sassoli, di cui Schlein ha certamente ereditato parte della memoria politica. A Bruxelles, d’altronde, il Pse non deve reggere il peso – spesso divisivo – delle scelte in capo alla popolare Ursula von der Leyen (siano esse sulla guerra, sull’auto elettrica, sui migranti o sui nuovi parametri di stabilità). È invece socialista il primo vicepresidente Frans Timmermans: responsabile nominale della strategia NextGenerationUe, fin dal nome un vessillo giovanilista di tutte le aspirazioni di sviluppo sostenibile incarnate in Italia dalle “schleinismo”. È stato lui, sabato sera, a twittare l’accordo fra Germania e Commissione sulla conferma della scadenza 2035 per la transizione all’auto elettrica, alla fine imposta a Berlino dai Verdi al cancelliere Olaf Scholz (Spd) e ai partner di Fdp.
L’interfaccia rosso-verde(-rosa) su cui si va scaldando la candidatura Marin si profila cruciale al prossimo euro-voto: anzitutto perché essa guida già la “locomotiva” Germania (fra l’altro Paese non completamente schierato con la Nato in Ucraina). È appoggiandosi a questo euro-canovaccio che Schlein sta preparando in Italia l’assalto all’elettorato M5s, in parte nostalgico dell’originario antagonismo ambientalista. E lo scenario della prossima primavera si presenta di per sé favorevole: un’elezione su scala nazionale, del tutto proporzionalista e storicamente molto aperta al voto d’opinione. Qui il segretario Pd sembra voler puntare le sue carte, in una partita ambiziosa e non priva di realismo politico.
È infatti evidente che una campagna fatta di “niet” a quanto il Governo Meloni sta decidendo sul terreno (geo)politico-economico si profila problematica, se non addirittura perdente in partenza, per un Pd che ha governato quasi ininterrottamente dopo la cesura del 2011. Né può Schlein pensare di ripercorrere le orme della fulminea ascesa di Matteo Renzi nel 2014, quando un leader completamente “new” (poco più anziano di Schlein oggi) sembrava poter rilanciare la legittimazione del centrosinistra a guidare il Paese. La meteora renziana fu infatti messa in orbita dall’euro-voto 2014 (ma in parte accadde anche con Matteo Salvini vicepremier leghista in carica nel 2019). Fra un anno, invece, l’inerzia sembra giocare a favore di Giorgia Meloni: finora protagonista di una premiership cauta, ma priva di errori gravi e sempre a contatto con i problemi reali del Paese.
Pur tenendo costantemente alta la pressione politico-mediatica sul fronte migratorio, Schlein è la prima a non ritenere possibile una replica della disperata campagna mediatica “contro l’odio” che salvò la poltrona a Stefano Bonaccini in Emilia-Romagna all’inizio del 2020 e catapultò lei stessa sullo scenario politico. L’Europa – con il volto di Marin, il catalogo di tutte le suggestioni rosso-verdi-arcobaleno e il peso euro-politico di Berlino – può invece attivare dinamiche politiche interne potenzialmente rilevanti.
La più importante appare il richiamo alle urne di porzioni di quel vasto astensionismo che nel settembre scorso ha dato una spinta decisiva al centrodestra meloniano, contro ogni precedente invece favorevole al centrosinistra dei partiti e dei valori ideologici. È indubbio che vi siano milioni di giovani disaffezionati alla stessa democrazia, nonché delusi dalla lunga parabola grillina. Se tornano a votare, è probabile che risultino attratti dai “dream” della giovane Elly. Che, fra l’altro, è stata allevata oltre Atlantico dalla “machine” politica obamiana: perfetta conoscitrice della “tecnologia elettorale” che si muove fra i “social”.
Nel frattempo Meloni ha visto certamente sfumare la “scommessa” fatta su Scholz al tavolo Ue dell’auto elettrica e dei biocarburanti. Ma nelle stesse ore, a Bruxelles la premier italiana ha riaperto in canali con il presidente francese Emmanuel Macron. È un passaggio di cui sarebbe un grosso errore trascurare le valenze euro-politiche. Per la cancelleria di Berlino l’Italia di centrodestra rimane un avversario alle prossime elezioni, anzi: Giorgia Meloni, leader dell’emergente Ecr italo-polacco, è l’avversario da battere, allorché il Ppe post-merkeliano (con Manfred Weber alla guida e Ursula von der Leyen alla Commissione) sta già delineando un’eurocoalizione di centrodestra a supporto della presidente maltese in carica del Parlamento Ue, Roberta Metsola come spitzenkandidat. L’ago della bilancia, in un’Ue politica competitiva e non più “unanimistica”, saranno prevedibilmente i liberali di Alde: a cui aderisce “En Marche!”, il post-partito di Macron. E anche per il presidente francese – in estrema difficoltà in patria per la rivolta contro la riforma delle pensioni – la sponda europea può rivelarsi preziosa.
Su questo sfondo la ripresa di contatti con Meloni (leader di governo di una destra diversa da quella di Marine Le Pen) appare sintomo eloquente di una partita apertissima, appena iniziata.
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