Che un commissario Ue – neo-designato da un Paese fondatore a un portafoglio di primo livello a Bruxelles – strilli all’Europa di “svegliarsi”, può apparire ai limiti del surreale. Anche a Roma, peraltro, il premier Conte sembra spesso dimenticare che oggi a governare l’Italia è lui, non altri cui lanciare appelli o allarmi.
Non si può tuttavia negare all’Sos lanciato da Paolo Gentiloni quel buon senso che tutti hanno sempre riconosciuto come dote principale all’ex premier italiano. La sua nomina europea – maturata forse al di là della sua stessa volontà – è figlia del ribaltone politico di agosto: “narrato” agli italiani anzitutto come passo necessario per riportare l’Italia “perduta” dal salvinismo nell’ovile di un’Europa per definizione “buona e giusta”, entro i suoi confini e fuori.
Ora quell’Europa mostra tutta la sua drammatica inesistenza di fronte a una crisi geopolitica che si estende dall’Iraq alla Libia, a poche miglia dalle sue frontiere. E non si può dimenticare, all’inizio del 2020, che l’ennesimo “caso italiano” in Europa nel 2019 non ha avuto a che fare con i cronici problemi di finanza pubblica, ma con una questione di politica estera e della sicurezza: la gestione dei flussi migratori dalla Libia. Non si può dimenticare, a pochi mesi di distanza, l’attacco para-militare portato all’Italia da una nave gestita da una Ong tedesca e capitanata da una cittadina tedesca contro le disposizioni (di legge) decise dal governo italiano per proteggere la sicurezza del Paese nel canale di Sicilia.
La nuova presidente della commissione Ue, Ursula von der Leyen, è stata designata poche ore dopo l’arrembaggio di Lampedusa: durante un Consiglio Ue lungo e contrastato, su pressione del presidente francese Macron e con la – grottesca – astensione del cancelliere tedesco Merkel.
Il governo Conte 2, poche settimane dopo, è nato letteralmente nel nome di “Orsola”, anche se all’epoca la sua conferma all’Europarlamento era ancora in bilico. Nella freddezza degli europarlamentari tedeschi (anche di quelli della Cdu-Csu) ha pesato fin da principio l’inchiesta parlamentare in corso in Germania su contratti milionari di consulenza stipulati dal ministero della Difesa, retto dalla von der Leyen per cinque anni fino allo scorso luglio. Al di là dell’uso congruo di risorse pubbliche, la commissione vuole accertare se le consulenze sono state utilizzate dal ministro per fini personali. E proprio a cavallo di fine anno il “dossier Ursula” a Berlino ha conosciuto un brusco rialzo di temperatura.
Poco prima di Natale, alcuni membri della commissione d’inchiesta (Verdi e liberali) hanno infatti confermato di aver chiesto la consultazione dei messaggi di testo del cellulare dell’ex ministro, ma di essere stati informati da un funzionario del ministero che il dispositivo è stato “ripulito” lo scorso agosto: dopo la nomina europea della von der Leyen, in base a una prefissata “procedura di distruzione”. All’epoca della prima richiesta – nel febbraio scorso, quando il ministro era ancora in carica – al comitato era stato detto che un primo cellulare era stato disabilitato e cancellato dopo un attacco hacker.
Lo scorso 27 dicembre, von der Leyen ha detto di “aver appreso dai giornali” della cancellazione dei dati dal suo telefono istituzionale e di “non aver nulla da nascondere”. Ma questo non le eviterà una “grigliatura” da parte della commissione di Berlino, in una audizione già calendarizzata per il 13 febbraio.
È così, comunque, che anche sulla “quota rosa” tedesca indicata da Macron in Europa restano dense le ombre di misconduct fra governo e affari.
Delle altre due quote rosa, entrambe francesi, spinte dall’Eliseo, una (Sylvie Goulard) è stata clamorosamente silurata a Strasburgo per conflitti d’interesse (ora sotto inchiesta anche in Francia), mentre la neo-presidente della Bce, Christine Lagarde, era stata condannata già tre anni fa dal Tribunale dei ministri di Parigi per “negligenza” nell’arbitrato condotto dal Mef francese con l’uomo d’affari Bernard Tapie (una condanna “senza pena” aveva tuttavia consentito a Lagarde di restare sulla poltrona di direttore generale del Fmi).
Forse sono più reali e meno surreali di quanto sembrino le ragioni per cui l’Europa non risponde al telefono all’allarmato commissario Gentiloni. Il quale – peraltro – potrebbe nel frattempo ripiegare su un altro interlocutore: Federica Mogherini, di cui Gentiloni ha preso il posto al ministero degli Esteri nel governo Renzi, quando l’esponente italiana del Pd-Pse è stata chiamata all’Alto Commissariato per la Politica estera e la Sicurezza della Ue nella commissione Juncker. In questa veste, a Vienna nel 2015, Mogherini ha firmato per l’Unione lo storico accordo “5+1” che aveva posto limiti al programma nucleare iraniano (successivamente disdetto dagli Usa di Trump e ora anche da Teheran dopo l’uccisione di Soleimani). Possibile che Mogherini resti in silenzio sull’escalation in Medio Oriente? Sul suo blog l’ultimo post data 25 novembre (l’1 dicembre è entrato in carica come Mister Pesc lo spagnolo Josep Borrell) e dice: “Scrivo di ritorno dal Giappone, dove ho partecipato all’incontro dei ministri degli Esteri del G20 a Nagoya. Abbiamo discusso soprattutto di come garantire che il commercio mondiale rimanga libero e abbia regole più giuste, di come sostenere un modello di sviluppo più sostenibile, e della partnership tra le grandi economie del mondo e l’Africa”. Difficile che da un profilo simile scaturisca una possibile candidatura a premier semi-istituzionale di transizione in caso di crisi del Conte-2. Invece un Gentiloni-2 perché no?