Brontolare contro il diritto di sciopero – tutelato all’articolo 40 della Costituzione repubblicana in vigore dal 1948 – è ormai normale, anzi maggioritario nella Grande Milano come nella Grande Roma del 2019: quelle periodicamente paralizzate – come ieri e oggi – dalle agitazioni nel trasporto pubblico, locale e non, indette dalle sigle confederali o di base.
Anche chi segue a mala pena il caso Ilva – attorno alla cui possibile chiusura si paventa una perdita di Pil nazionale superiore all’1% – è portato naturalmente a chiedersi quanto costi all’Azienda-Paese un giorno di sciopero nella Città Metropolitana governata dal sindaco Beppe Sala: quella che viene dall’Expo 2015 e va verso le Olimpiadi invernali 2026. Oppure nella Roma Capitale di Virginia Raggi: cui è stato dato un ennesimo ultimatum sulla crisi della nettezza urbana.
Anche chi non si raccapezza con la “crisi-strutturale-della-produttività” – che secondo gli studiosi di tutte le università meneghine e capitoline è alla base dell’interminabile stagnazione italiana – intuisce quanto sia micidiale l’effetto esponenziale di uno sciopero del metrò indetto dalla Cub Trasporti.
Tutto questo, però, arriva a giustificare solo in parte che un titolo accigliato come “Sciopero (meno) selvaggio” sia comparso nell’austera pagina dei commenti di Repubblica, lo storico giornale-partito della sinistra italiana oggi al governo. Dal centrodestra – accusato di minacce neo-fasciste alla democrazia italiana – non sono mai giunte ramanzine moralisticamente corrette ai lavoratori in sciopero.
Non è il primo, né promette di essere l’ultimo dei paradossi di una transizione sociopolitica italiana forse appena iniziata. Certamente non è una tranche di vita pubblica né piccola né trascurabile. Così come non sono banali altri dibattiti politico-mediatici in corso sulla “costituzione economica” del Paese. Primo fra tutti – in questi giorni – appare quello attorno alle spinte di ritorno verso un’economia statal-nazionalizzata, dopo il crollo ennesimo di un viadotto della rete autostradale: privatizzata più di vent’anni fa dal governo Prodi-Ciampi presso una famiglia esponente simbolica – allora – di un neo-capitalismo “democratico e sostenibile”.
Il leader della Cgil, Maurizio Landini, può aver torto, nel ventunesimo secolo, nel vagheggiare una “nuova Iri”. Ma può non aver torto a battere i pugni sul tavolo contro la palese inettitudine politico-economica del “governo Orsola” voluto da Prodi, presidente della “vecchia Iri” fallita trent’anni fa e ora ultra-ottantenne candidato “democratico” alla futura presidenza della Repubblica. Il ventesimo secolo è finito ormai da vent’anni: anzitutto per lui.