Il Washington Post ha dato notizia che Meta – il gestore di Facebook – starebbe valutando l’inserimento della parola “zionist” fra quelle meritevoli di vigilanza speciale e misure restrittive sul social più grande al mondo, in chiave di contrasto al “linguaggio d’odio”.
Il quotidiano della capitale Usa presenta la questione come ancora “dibattuta” all’interno del gigante tech guidato da Mark Zuckerberg. È comunque evidente che la spinta proviene da diversi ambienti israeliti, sullo sfondo della guerra mediatico-culturale che sta avvolgendo e in parte orientando quella combattuta sul campo fra l’esercito israeliano, Hamas e Hezbollah. Nonostante le apparenze, è tutt’altro che un nodo di lana caprina.
L’assimilazione dell’“antisionismo” (oggi in concreto l’assunzione di posizioni critiche verso le politiche di Israele, in particolare verso i palestinesi) all’“antisemitismo”(odio razziale verso gli ebrei, direttamente innestato nella Shoah e nella sua memoria) si è andata consolidando negli ultimi anni, fino a diventare acquisita. È stata alla base, fra l’altro, di vari provvedimenti “Bds” di contrasto a ogni forma di boicottaggio economico di Israele (negli Usa è stato Donald Trump a firmare un decreto presidenziale dopo alcuni attentati a sfondo antisemita).
L’equazione però è entrata in crisi dopo il 7 ottobre e lo scoppio della guerra di Gaza. Nel passaggio più visibile e clamoroso, due rettrici di storiche università Usa (Harvard e Penn) sono state costrette alle dimissioni per aver difeso la libertà di parola degli studenti pro-palestinesi, distinguendo chiaramente fra manifestazioni di odio verso il popolo ebraico e protesta politica contro Israele (in particolare contro il governo di Netanyahu) in uno specifico “contesto” storico.
Una posizione “non assimilatoria” è parsa filtrare anche nelle parole della senatrice a vita italiana, Liliana Segre, raccolte con evidenza anche dal New York Times: testata anch’essa riflessiva sulla questione, come numerosi intellettuali israeliti liberal in Usa. Questi sono da tempo culturalmente attivi nel marcare confini fra ebraismo e Stato di Israele: soprattutto allorché il premier Netanyahu ha via via consolidato distanza dai “dem” Usa e simpatia per l’ex presidente Trump, oggi ricandidato. È stata comunque questa postura a consentire alla senatrice di replicare immediatamente e con durezza a un attacco portatole dall’ex diplomatica Elena Basile. “Io testimonio l’Olocausto, non rispondo del governo israeliano”, aveva detto Segre pochi giorni prima, affermando di essere angosciata per tutti “i bambini” colpiti dalla guerra.
Il dossier allo studio di Meta conferma quanto il tema sia di attualità delicatissima. “Ripulire” Facebook (e prevedibilmente anche altri social per dinamiche imitative) dalla parola “sionista” avrebbe un duplice effetto: quello di ribadire l’incorporazione in chiave di condanna dell’antisionismo nell’antisemitismo da parte del Grande Fratello american/globale, ma anche quello di abolire materialmente dalla rete un’importante parola-veicolo del confronto politico-mediatico sulla crisi di Gaza.
Perché la tensione resti alta su questo fronte specifico non è difficile intuire. Depotenziare (“negare”) per via linguistica il sionismo come categoria critica sul piano storico-politico significherebbe abbassare i riflettori sugli aspetti dell’odierno Israele che hanno suscitato crescenti frizioni polemiche anche prima della crisi di Gaza, con gli Usa non meno che con la Ue. Nei campus del “crogiolo di razze” nordamericano, dove l’inclusione omologante è assurta a comandamento unico politically correct, è già diventata aperta la contestazione delle politiche dello Stato ebraico – frutto storico del sionismo – nei territori palestinesi (e sarà interessante vedere ora come le scuole di legge e di scienze politiche di Harvard valuteranno il recentissimo progetto di legge del governo Netanyahu che punisce con il carcere fino a cinque anni chi “minimizzi le dimensioni” dell’attacco Hamas del 7 ottobre oppure esprima “ plauso, simpatia o identificazione”).
Se d’altronde al governo in carica a Gerusalemme venissero applicati gli stessi parametri politico-mediatici correnti nella campagna elettorale per il rinnovo dell’europarlamento, qualche osservatore si spingerebbe forse ad assimilare il “sionismo” al “sovranismo”: locuzione solitamente usata in senso critico e accusatorio da forze politiche e media che si dicono impegnati a difendere l’ordine democratico dell’Unione, contro governi sospettati di deriva autoritaria e contro i populismi di ogni colore.
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