Graziano Delrio – che ha proposto una Covid-tax oltre gli 80mila euro di imponibile – e Dario Franceschini, che nelle stesse ore ha vantato la riapertura delle librerie mentre le fabbriche rimarranno chiuse per altre tre settimane, sono forse oggi i due veri leader del Pd: non meno autorevoli, in ogni caso, del segretario Nicola Zingaretti. A differenza del presidente della Regione Lazio, Delrio e Franceschini hanno ricoperto ruoli rilevanti nell’ultima legislatura di governo del centrosinistra. E li conservano in quella corrente: uno come capogruppo Pd alla Camera, l’altro come capodelegazione dem nell’esecutivo.



È Franceschini il premier-ombra con cui il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si consulta costantemente: non da ultimo perché è una delle poche ruote di scorta realistiche a Giuseppe Conte. Ed è l’ex ministro reggiano Delrio – assieme al ministro ferrarese ai Beni culturali – il solo leader nazionale del Pd con residua capacità di movimento nel Nord del Paese. Per questo l’uno-due della vigilia di Pasqua – su terreni cruciali nell’avvicinamento alla “fase 2” dell’emergenza – ha destato sensazione.



L’addizionale biennale Irpef di scopo concepita da Delrio (poco correttamente definita una “mini-patrimoniale”) ha suscitato clamore politico-mediatico nell’opposizione di centrodestra ma anche presso M5S: quest’ultimo presumibilmente preoccupato di vedere “smontato e rimontato” dal Pd il reddito di cittadinanza. L’ennesimo ballon d’essai sul “denaro dall’elicottero per chi è in difficoltà” ha poi certamente disturbato il Mef:  dopo due “decretoni” nessuna “manna” è ancora piovuta dal cielo  su nuovi cassintegrati, lavoratori autonomi senza più redditi o imprese sbarrate. Ma anche il vertice del Pd ha dovuto prendere le distanze dal rilancio di uno schema politicamente logoro: quello di un centro-sinistra che e spreme invece periodicamente i contribuenti “onesti per forza” del ceto medio privato e non mette mai mano alla spesa pubblica, né all’evasione fiscale “criminale”.



Alla larga parte degli osservatori è stato impossibile non individuare – nell’apparente “Nuova Politica Economica” del Pd – residui ancora forti di una cultura avversaria dell’impresa e del lavoro professionale, del capitalismo reale di mercato. È una cultura di governo che tutt’oggi sembra recalcitrare all’idea che la “fase 2” dopo l’epidemia debba iniziare dagli investimenti e dello sviluppo, soprattutto del sostegno alla manifattura, motore dell’export. L’approccio base del Pd sembra incapace di abbandonare la logica rigida del prelievo fiscale a fini redistributivi, senza timori di guardare alla cosiddetta “decrescita felice”. La stessa legge di stabilità 2020, firmata dal Mef di Roberto Gualtieri, era già risultata zeppa di web/plastic/sugar tax & C e priva di tagli o di ricomposizioni della spesa pubblica (salvo poi verificare, allo scoppio della pandemia, l’inefficienza della spesa sanitaria). Tre mesi dopo, con il paese devastato dal virus, il Pd riparte dalle sovrattasse in un paese dove la pressione fiscale è oltre il 43%. E Delrio che condanna fiscalmente come “ricco” chi dichiara al fisco più di 80mila euro mostra di non accorgersi dell’effetto-incoraggiamento all’evasione e del disincentivo a impegnarsi onestamente nello sviluppo di attività d’impresa o di lavoro professionale. 

L’aperto compiacimento di Franceschini sul reopening delle librerie ha invece registrato contrarietà durissime nel mondo industriale. Gabriele Buia, il presidente dell’Ance che raggruppa 20mila imprese di costruzione italiane, sabato ha dato pubblicamente dei “pazzi” ai ministri che hanno preso la decisione di mantenere fino al 3 maggio il lockdown delle imprese, “preferendo la cultura”. Lo stesso giovedì 8, a Eurogruppo in corso, le quattro maggiori federazioni regionali di Confindustria (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) avevano indirizzato un invito perentorio al governo per accelerare l’inizio della fase due: un pressing che guardava a lunedì 20 aprile, al massimo al successivo. L’ennesimo Dpcm annunciato alla nazione da Conte ha invece lasciato inchiodata la potenziale riapertura al 3 maggio. Se la boutade di Delrio aveva reso turbolento il pomeriggio all’interno della compagine di governo, quella di Franceschini è sembrata scavare un solco multiplo fra governo e parti sociali. Tra queste, fra l’altro, lo stesso atteggiamento delle organizzazioni sindacali non è affatto di chiusura netta alla ripartenza accelerata delle attività produttive.

È infatti comprensibile la riproposizione formale dell’allarme-sicurezza che aveva portato alla dichiarazione di uno sciopero generale lo scorso 9 marzo: fra la dichiarazione di “zona rossa” al Nord e la rapida estensione del lockdown all’intero Paese. Ma quell’agitazione è sostanzialmente fallita: e a un mese di distanza cresce a vista d’occhio la preoccupazione di milioni di lavoratori dipendenti del settore privato per la continuità del loro reddito, strettamente connessa con la continuità dell’attività delle imprese sui mercati nazionali e internazionali. L’apparente collateralismo “chiusurista” della Cgil per il governo Conte, potrà forse rivelarsi pagante in termini di consenso nel Sud pentastellato e assistenzialista: sulla linea di sutura sociopolitica fra l’antagonismo di Maurizio Landini e quello (rinnovato) dei leader M5S. In Veneto – ai confini con l’Emilia di Delrio e Franceschini – il governatore leghista Luca Zaia sta invece annunciando da giorni una ripresa progressiva dell’economia prima del lockdown senza apparenti opposizioni politico-sindacali: forte anche del fatto che il la gestione test-test-test dell’emergenza sanitaria è riuscita – almeno finora – a contenere drasticamente contagi e decessi in regione

Se al Nord le fabbriche cominceranno a riaprire in parziale disobbedienza al governo Conte, al premier-ombra Franceschini difficilmente basterà rilanciare – come già sta tentando – annunciando la riapertura anticipata dei cinema.

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