Provocata da un’intelligente riflessione di Claudio Signorile prende piede sul Corriere del Mezzogiorno la proposta di costituire una federazione delle Regioni del Mezzogiorno per meglio affrontare le sfide che ci aspettano. Diversamente che nel passato, il dibattito che ne sta scaturendo non s’impantana nello stagno del rivendicazionismo, ma cerca di allineare i motivi per i quali un simile assetto può riuscire più utile all’intero Paese.



Anche se è dai tempi di Giuseppe Mazzini che si ripete come un mantra che l’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà – monito riproposto in tutte le salse e da ultimo rilanciato dal ministro Giuseppe Provenzano -, in realtà l’esito delle politiche che si sono succedute nel tempo, con la sola lodevole eccezione della prima Cassa che infatti fu spazzata via, è sembrato più tirare verso il basso che spingere verso l’alto il pesante corpo nazionale.



Se il rilancio del Sud si limita a essere uno slogan elettorale, se la soluzione alla disoccupazione (soprattutto giovanile e femminile) s’immagina di trovarla nel reddito di cittadinanza, se lo Stato si disinteressa d’interi pezzi di territorio dove la legge si fa da sé, appare evidente che i migliori propositi e gli slanci più generosi di uomini pubblici e intellettuali non possono che infrangersi contro il muro della dura realtà.

Dunque, la prima verifica da fare è capire se questa volta si fa sul serio o siamo all’ennesima replica di una recita infinita. Le occasioni per strappare il Sud alla sua condizione di arretratezza generale, sia pure punteggiata da molte eccezioni, sono state molte. D’altra parte, i fondi straordinari europei sono nati proprio per colmare la distanza con le aree ricche del Paese sollevando per questa via il livello complessivo di benessere.



Ma è andata com’è andata e come la Svimez continua a ricordarci: le risorse investite (poche e male in verità) sono servite appena appena a sostituire quelle ordinarie in un quadro allargato d’investimenti risultati sempre più scarsi sia dal punto quantitativo che qualitativo. Si potrebbe tentare un parallelo tra l’altezza del ceto dirigente e quello dei suoi risultati, ma, sebbene pertinente, rischierebbe di alimentare una sterile polemica.

Il fatto è che siamo sempre forniti di buoni propositi quando il potere non è nelle nostre mani e vorremmo conquistarlo. Una volta riusciti, ce ne dimentichiamo o perdiamo il senso delle priorità. C’è sempre qualcosa che viene prima di quello che sarebbe davvero utile fare – sia pure la mera tenuta in vita di un Governo – e rimandiamo a momenti migliori, che sappiamo non si presenteranno mai, proprio le scelte che avremmo consigliato.

Ora l’imperativo di rispondere in maniera appropriata a (forse, come saperlo?) occasioni uniche e irripetibili come quelle prospettate dal programma comunitario conosciuto con il nome di Next Generation Eu ci obbligherebbe a mettere da parte gli antichi vizi e moderni per cambiare almeno il modo di fare e muoverci in coerenza con quello che andiamo ripetendo: sta passando l’ultimo treno, se perdiamo anche questo restiamo a piedi.

E allora ben venga la discussione su come sarà meglio organizzare le Regioni meridionali perché si facciano trovare pronte all’azione evitando di dispensare nuove delusioni: ma come parte di un disegno razionale e nazionale che includa anche le condizioni utili a raggiungere l’obiettivo. Ma manca un chiaro quadro di riferimento. E c’è molta confusione su ruoli degli attori in campo, le loro prerogative e i rapporti che devono mantenere.