È interessante andare a rileggere il pensiero dei primi meridionalisti – da Pasquale Villari a Luigi Sturzo per offrire un arco di tempo riconoscibile, da metà Ottocento ai primi del Novecento – perché appare chiaro che tutto quello che oggi si potrebbe suggerire per contribuire alla migliore realizzazione possibile del Piano nazionale di ripresa e resilienza, sulle virtù catartiche del quale tante speranze sono appuntate, è stato già ampiamente detto e scritto.
Che la responsabilità dell’indigenza delle popolazioni meridionali sia da attribuire alla brutalità della guerra di annessione passata come Unità d’Italia o alla resistenza degli sconfitti diventati briganti, all’avidità dei ceti industriali del Nord o all’ignavia degli agrari del Sud, all’incapacità della politica di esprimere persone capaci o all’infiltrarsi sempre più insidioso nei gangli della società di formazioni malavitose, il fatto è che delle tante matasse nessun bandolo è stato ancora trovato.
Le scuole di pensiero che si sono col tempo formate e affinate prendono tutte spunto da questi fenomeni macro, ciascuna ponendo l’accento su questo o quell’aspetto della faccenda. E forse la difficoltà a trovare una strada che dall’alto consesso dei libri e dei convegni conduca al suolo della concretezza sta nella poco felice circostanza che sono vere tutte le opzioni e che pertanto abbiamo a che fare contemporaneamente con un certo egoismo del Nord che si salda con l’opportunismo del Sud che esprime una classe dirigente di dubbia qualità che non ha interesse a combattere fino in fondo il crimine che occupa molta più scena di quanto potrebbe e così cantando in tondo secondo l’insegnamento di Battiato.
È un circuito vizioso spezzare il quale diventa ogni giorno più difficile perché nel frattempo nell’alveo costruito da questo fiume, che scorre idealmente da 160 anni scavando nelle viscere della nazione, ci sono stati molti e troppi accomodamenti. Per cui a parole tutto è da cambiare mentre nei fatti ci s’impegna a non modificare nulla perché l’esperienza insegna che prima o poi il giocattolo s’aggiusta. Da solo, con meno intervento possibile dell’uomo perché a pensarci è lo Stellone che presumiamo non ci lascerà mai.
Eppure, i tempi sono davvero cambiati. E le abitudini, quelle cattive che le buone deperiscono in fretta, devono adeguarsi a un mondo che pone sfide forse mai così grandiose. La coscienza dei più giovani invita a non scherzare con il fuoco del clima che cambia. L’ambiente che abbiamo sempre considerato al servizio dell’umanità s’incarica di farci sapere che non ne può più di farsi violentare senza reagire. E mostra evidenti segni d’insofferenza. In questo quadro il ritardo del Mezzogiorno appare un misero incidente.
Eppure, non possiamo ignorarlo perché è emblematico di una condizione che reclama il riscatto. Come sempre le formule magiche – crescita, investimenti, riforme – aiutano a coltivare la speranza che c’è ancora vita oltre l’orizzonte. Ma il tempo degli apprendisti stregoni volge al tramonto e si prospetta una nuova alba per gli uomini nuovi. Che siano i cento di ferro sognati da Guido Dorso o i liberi e forti di Sturzo poco cambia. È al capitale umano, come oggi si dice, che occorre attingere per trovare le soluzioni.
Alla vigilia di un voto amministrativo che coinvolge le maggiori città del Paese non sembra che il dibattito sia stato alato come lo stato di necessità consiglierebbe. La Questione Meridionale è diventata questione nazionale ed europea. Si è fatta molta retorica sulla spinta che dal basso dovrebbe condizionare le scelte compiute in alto. Va bene la resilienza che aiuta a sopravvivere. Ma per tornare a vivere occorre molto di più. La domanda di buon governo dovrebbe così influenzare una migliore offerta. Sta a noi. Sta in noi.
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