Un interessante articolo di Carmine Fotina sul Sole 24 Ore induce a qualche riflessione. Istituito nel 2019 (quindi cinque anni fa) con una dotazione di 250 milioni a valere sul Fondo di sviluppo e coesione, lo strumento finanziario gestito da Invitalia e conosciuto con il nome di Cresci al Sud ha finora portato a termine nove operazioni in tutto il Mezzogiorno per un investimento complessivo di 35 milioni.
Un dato certamente non rassicurante, perché se crediamo nell’effervescenza dell’area, nell’intraprendenza dei suoi attori, nella bontà dell’offerta dobbiamo anche domandarci come mai precondizioni così allettanti abbiano poi prodotto un risultato tutto sommato deludente anche considerando che ben 134 sono state le domande bocciate perché ritenute non meritevoli di attenzione.
Da una parte, dunque, gli esperti – accademici e non – ammoniscono sull’importanza fondamentale del venture capital e del private equity per far crescere le imprese virtuose (e che si presume siano molte), dall’altra i numeri smentiscono la teoria perché la gran parte delle risorse messe a disposizione per questo fine restano nel cassetto e non vengono utilizzate come invece sarebbe utile e necessario.
Brutti progetti? Eccessivo rigore nella loro valutazione? Effetto scoraggiamento dovuto a una montante incertezza del futuro? Una ragione ci dovrà pur essere se la realtà è così distante dalla percezione del fenomeno. Ancora di più se le poche iniziative premiate appartengono – come di fatto è – al campo dell’economia tradizionale e non a quello dell’innovazione a cui tutti guardano con speranza.
Vero è che nascono sui territori proposte aggiuntive o alternative rivolte a scovare e premiare realtà fresche e promettenti. In Puglia e in Campania, per esempio, ha ben funzionato l’esperimento dei cosiddetti basket bond e stanno per affacciarsi nuovi pacchetti d’intervento come gli hub di Elite (un modo veloce ed efficace per avvicinarsi alle logiche della Borsa) che sono in gestazione e che promettono bene.
In definitiva quello che appare all’occhio dell’osservatore disincantato è una distanza non colmata tra le intenzioni dichiarate e i risultati conseguiti. Come nel mercato del lavoro anche in quello dei capitali l’offerta e la domanda non s’incontrano come e dove dovrebbero lasciando insoddisfatte l’una e l’altra. E tutto questo a dispetto del discorso pubblico dove sembra che i rimedi siano trovati.
Che sia la conseguenza di un eccesso di burocrazia o del timore del decisore di essere chiamato a rispondere nel caso di uno sbaglio nell’affidamento o di un’ancora acerba preparazione della classe imprenditoriale meridionale che continua a peccare di scarsa trasparenza (a nessuno fa piacere condividere i propri segreti aziendali), il fatto è che il meccanismo spesso s’inceppa.
Chi svolge il mestiere del prestatore di denaro sa bene che gli errori a cui può andare incontro sono essenzialmente di due tipi: fidarsi di chi non merita e non fidarsi di chi merita. Nel primo caso è facile che si perdano i soldi, nel secondo è probabile che si comprometta un’attività di successo. Si tratta, dunque, di una funzione molto delicata spesso complicata dall’esistenza di malfattori e approfittatori.
Per superare questi scogli esistono istituzioni pubbliche e private come i consorzi di garanzia che alleggeriscono il peso della scelta, ma che non possono certo sostituirsi a essa. La pluralità dei soggetti in gioco è una buona cosa che arricchisce il contesto e ne può assecondare il dinamismo. Naturalmente la differenza la fanno la qualità e la capacità di generare fiducia. E su questo c’è da impegnarsi.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.