Le reazioni alla pre-incriminazione del premier israeliano Netanyahu da parte della Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi) meriterebbero un approfondimento completo, utile a trarre autonome indicazioni geopolitiche.

Uno dei casi più interessanti è quello del Financial Times, che lunedì ha subito corredato le breaking news con una opinion firmata da sei fra gli advisors che hanno assistito il procuratore della Cpi, Karim Khan. Fra questi quattro erano insigni magistrati e giuristi britannici (scuola “Oxbridge”), affiancati da due avvocati internazionali specializzati in diritti umani e basati a Londra: l’israelita Danny Friedman e Amal Clooney (nata in Libano come l’attuale direttore di FT, Roula Khalaf). “Perché appoggiamo il perseguimento da parte della CPI dei crimini in Israele e a Gaza”: il titolo si è presentato pressoché tautologico per i consulenti di Khan; meno scontato – invece – che a proporlo nei fatti come proprio sia stato il più importante quotidiano finanziario globale con sede a Londra. Un’antenna che ha sempre avuto una visibile sensibilità ebraica nelle sue firme, benché nelle ultime settimane si fossero accentuate le voci critiche verso il radicalismo del governo Netanyahu.



Comunque: i mercati – soprattutto nel complesso avvicinamento al redde rationem elettorale fra Joe Biden e Donald Trump negli Usa – stanno evidentemente perdendo pazienza e fiducia verso l’Israele odierno. E non ha stupito neppure la divaricazione di posizioni fra la City e il ministro degli Esteri britannico, l’ex premier conservatore David Cameron, che si è unito alle immediate deplorazioni per l’iniziativa della CPI contro “King Bibi”.



La Casa Bianca ha attaccato per prima il preavviso di arresto per Netanyahu e per il ministro della Difesa Yoav Gallant; e la churchilliana “relazione speciale” fra Londra e Washington sembra resistere – per ora – allo sconvolgimento dell’ordine mondiale post-1945. Su questo sfondo è parso rientrare nella normalità anche il pronunciamento del collega italiano di Cameron, il vicepremier Antonio Tajani: che ha definito “inaccettabile” come la Cpi abbia inteso porre sullo stesso piano il governo eletto di una democrazia e i vertici di un movimento autore iniziale di un’aggressione sanguinosa a Israele.



Neppure il posizionamento dell’Italia sul passaggio-Netanyahu appare tuttavia così scontato. È certamente figlio di una collocazione geopolitica storica del Paese in era repubblicana, che la maggioranza Meloni in carica ha ribadito in modo fermo sia sullo scacchiere ucraino che su quello mediorientale. Ma se un tempo perfino il Pci condivideva tale collocazione “occidentale”, pur all’opposizione di governi a guida Dc o Psi, oggi la posizione del Pd non è affatto chiara (non è la prima volta, neppure sull’Ucraina) mentre il leader M5s, Giuseppe Conte, si è detto convinto che “neppure Netanyahu possa sottrarsi alle leggi internazionali” (curioso per un ex premier “ribaltonista” legittimato dall’allora presidente Usa Donald Trump, alleato di ferro del premier di Gerusalemme).

L’aspetto più visibile – e forse meno banale – del caso appare tuttavia il contrasto di linea fra i tre maggiori Paesi della Ue e in particolare fra Italia e Francia. Se il cancelliere tedesco Olaf Scholz si è limitato a ribadire in via di principio un “rispetto per l’indipendenza della Cpi”, il ministero degli Esteri francese ha emesso una nota di pronto appoggio alla Procura dell’Aja: “Da molti mesi – ha ricordato Parigi – la Francia sta lanciando l’allarme per il rispetto delle leggi umanitarie internazionali, soprattutto per l’inaccettabile natura delle perdite civili nella striscia di Gaza”. Una linea antisraeliana non sorprendente per un Paese costantemente avido di protagonismo politico-economico globale (e con un presidente debole all’interno come Macron); con milioni di islamici residenti da più generazioni e braci antisemite mai spente.

È in ogni caso la seconda volta in una settimana che Italia e Francia si ritrovano pubblicamente agli antipodi ai bordi della guerra di Gaza. È accaduto all’Assemblea generale dell’Onu che Parigi (membro permanente del Consiglio di sicurezza) abbia votato sì a una mozione favorevole all’adesione di un futuro Stato palestinese alle Nazioni Unite: documento approvato a larghissima maggioranza. Gli Usa si sono invece espressi in modo contrario mentre pochi altri Paesi (fra cui Gran Bretagna, Germania e Italia) si sono astenuti.

Il passaggio potrebbe essere rilevante per soli addetti ai lavori, se non fosse che fra Italia e Francia corre qualcosa di meno di una “relazione speciale”, ma qualcosa di più della semplice presenza confinante fra i 27 della Ue. Sul piano diplomatico questo “qualcosa di più” è molto recente e non appare trascurabile: si tratta del Trattato del Quirinale, siglato nell’autunno del 2021 da Macron e dall’allora premier Mario Draghi sotto lo sguardo del presidente Sergio Mattarella, promotore di quel “trattato di amicizia” all’interno della Ue. Il passo fu già allora oggetto di riflessioni: la presidenza italiana non ha alcuno dei poteri esecutivi di cui gode il capo della Francia “semipresidenziale” (“super-premierale”). E la politica estera (europea ed extraeuropea) è uno dei momenti di governo che in una repubblica parlamentare sono di competenza dell’esecutivo.

Alla stretta del “caso Netanyahu” sembrano affiorare – nel contesto del Trattato – tensioni non solo istituzionali, ma anche di merito. È nota la posizione critica di Mattarella verso l’escalation militare a Gaza: il presidente italiano l’ha articolata, di recente, parlando davanti all’Assemblea Onu (e dando qualche eco, fra l’altro, alla fermezza pacifista della Santa Sede). Ma un giudizio sostanzialmente critico verso le modalità della controffensiva di Israele nei Territori dopo il 7 Ottobre era stato ben leggibile in precedenza, dietro la difesa iniziale delle proteste studentesche filopalestinesi in Italia.

Mattarella si conferma quindi “amico” di Macron sull’opportunità di giungere al mandato d’arresto internazionale per il premier israeliano. Il governo italiano invece ha una posizione opposta: certamente allineata con Usa e Gran Bretagna, e disallineata con quei Paesi europei – anzitutto la Spagna – pronti a riconoscere uno Stato palestinese probabilmente subito dopo il voto europeo. Quando fra l’altro, saranno chiare le chance di Draghi di assumere una carica di vertice nella Ue: si dice grazie alla sponsorship di Macron.

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