Ma che succede alle telecomunicazioni europee? British Telecom, dopo aver maturato oltre 2 miliardi di utili (grazie anche a un’aliquota fiscale speciale di appena il 10%), ha comunicato che taglierà 55 mila posti su 139 mila, sostituendone una parte con l’intelligenza artificiale. Nonostante abbia pagato un dividendo pari al 5,5% del valore del titolo in Borsa, cioè tantissimo.



Sono impazziti? Sono cattivi? Improbabile. Più probabilmente sono brocchi. Anzi: gli attuali manager forse anche no, ma i loro predecessori, soprattutto la classe dirigente delle telecomunicazioni europee che imperversava tra la seconda metà degli anni Novanta e tutti gli anni Zero, assolutamente brocchi. E avidi. Non facciamo nomi, ma sono lì da rivedere su qualsiasi Wikiqualcosa, in Rete. Perché è proprio intorno alla Rete che si è consumata l’insipienza di questa generazione di manager, roba che al confronto Esau che vendette a Giacobbe la primogenitura per un piatto di lenticchie era uno furbo.



Quando nel’96 venne fondata Google, negli Stati Uniti le grandi compagnie di telecomunicazioni, dalla At&t a Verizon a Sprint, erano colossi pieni di profitti da non sapere dove metterli. Non capirono niente del fenomeno Internet. In un mondo logico avrebbero dovuto capire e investire. In un mondo saggio oggi internet apparterrebbe ai telefonici, visto che viaggia sulle loro reti. Macché.

Non solo questi geni lasciarono la Rete in pasto ai nuovi attori – come Google, ma allora ai blocchi di partenza c’erano già anche soggetti divenuti altrettanto colossali come Amazon o fermatisi a metà strada come Yahoo -, ma non capirono di avere in mano il potere di condizionare la vita di questi nuovi colossi che oggi possono sorridere di ironia confrontando i propri utili con quelli dei telefonisti. Non capirono che avrebbero dovuto far pagare caro il traffico dati ai nuovi protagonisti del web – i cosiddetti “Ott”, dall’acronimo inglese “over the top”, per dire che i loro servizi viaggiano sopra il filo della rete – per poter guadagnare il necessario a svilupparla bene, questa rete, a trasformarla rapidamente in banda larga e a manutenerla come si deve.



Se ne fregarono continuando anzi a indebitarsi per fare operazioni finanziarie fantasiose e di vario esito, ma tutte e sempre orientate al concetto che si doveva “estrarre valore” per l’azionista. Proprio così, “estrarre valore”, come si estrae un dente cariato. Che significa, tradotto in parole povere, depauperare l’azienda.

Tornando alle vicende italiane, c’è un rischio gravissimo che incombe su <Tim, o meglio Telecom Italia (ma sarebbe bello poterla chiamare di nuovo Stet o Sip, perché con quei nomi incutevano rispetto a tutto il mondo mentre oggi…). Tim deve al più presto trovare una quadra per ridurre il suo debito monstre, di ben 29 miliardi, e può farlo solo vendendo la sua rete fissa, con dentro 20 mila dipendenti, a uno dei due pretendenti, od Open Fiber (controllata dallo Stato) o il fondo Usa Kkr (speriamo di no perché la ristrutturerebbe per rivenderla).

Peccato che il principale socio privato di Tim frena su questa vendita indispensabile perché non gli bastano i circa 21 miliardi che più o meno offrono entrambe le cordate, e quindi Tim continua a rischiare una grave crisi finanziaria che imporrebbe una drastica ristrutturazione.

Com’è arrivata a ridursi così un’azienda che fino a quindici anni fa era tra le prime dieci al mondo del suo settore? Una storia diversa da quella di Bt, ma non tanto, perché anche Tim come Bt piange miseria ma paga fior di dividendi. Solo che Tim rispetto a Bt ha subìto a suo tempo un vero e proprio stupro istituzionale, veramente devastante, che non è mai abbastanza ricordare e condannare.

Lo Stato ha determinato il disastro di Telecom, dapprima nel ’97 svendendola ad appena 27 mila miliardi di lire (13 miliardi di euro, scempio firmato Prodi, Ciampi e Draghi) a un gruppetto di soci disinteressati guidati (si fa per dire) dal gruppo Agnelli, pur di privatizzarla; e poi neanche due anni dopo autorizzando un’Offerta pubblica d’acquisto da 100 mila miliardi di lire, 51 miliardi di euro, ovvero il quadruplo del prezzo di privatizzazione, lanciata dalla cordata Colaninno con la benedizione del Governo D’Alema. Peccato che questa montagna di soldi sia finita, com’era inevitabile che accadesse, nella pancia della stessa società acquisita. Sotto forma di debiti.

Da allora, Tim ha perso la capacità di investire in tecnologie di rete i soldi necessari per tener dietro alle evoluzioni del digitale. Deve prima pagare i debiti, e i dividendi.

E c’è da aggiungere una cosa. In Europa le istituzioni di Bruxelles funzionano in modo ridicolmente inefficiente. La burocrazia comunitaria è da vomito. C’è solo una cosa che funziona: l’antitrust. Per cui nel nostro continente ci sono circa 100 operatori telefonici in concorrenza, mentre negli Stati Uniti solo tre o quattro. Quindi da noi si paga molto meno, con tutto vantaggio per i consumatori. E naturalmente cosa stanno facendo i lobbisti delle tlc? Stanno chiedendo all’Europa di abbassare la guardia contro l’oligopolio telefonico. Per quanto poi gruppi capaci di comprare i piccoli concorrenti non se ne vedano.

E dunque questo settore si trascina stancamente, affamato in mezzo all’abbondanza delle opportunità ma sempre digiuno, grazie al lascito di uno stuolo di manager che non aveva capito niente del futuro e che si sono arricchiti spaventosamente sulla pelle delle aziende passando alla storia come quelli bravi.

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