“Il Movimento 5 Stelle, principale partito di maggioranza, ha scelto la strada dell’irrilevanza in nome di una logica della purezza e dell’identità che gli elettori hanno punito”. Lo si è potuto leggere in uno dei più autorevoli commenti giornalistici non-più-a-caldo sul voto.

La premessa di fatto è cronisticamente ineccepibile: M5s ha “perso le elezioni”, lo ha riconosciuto anche il presidente della Camera, Roberto Fico. Ha perso milioni di voti: addirittura otto dei dieci abbondanti raccolti alle politiche 2018, secondo l’entourage di Alessandro Di Battista. Molti voti ex grillini hanno alimentato direttamente i trionfi del leghista Luca Zaia in Veneto e del dem Vincenzo De Luca, nella regione del leader M5s Luigi Di Maio: lo dice un’analisi dello stesso quotidiano su cui è comparso il commento. Che allora sembra peccare di logica basica – anche se in queste ore è in folta compagnia – quando predice e saluta tre anni di stabilità al governo sostenuto dalla maggioranza M5s-Pd.



Se M5s è davvero divenuto “irrilevante”, perché deve restare formalmente fino al 2023 il primo partito assoluto in Parlamento, forte di un terzo in entrambi gli emicicli? A maggior ragione: se la struttura del Parlamento è stata rivoluzionata proprio dal referendum – rilevantissimo negli effetti – promosso da un M5s “ora “irrilevante”, perché nulla deve cambiare in un Parlamento sulla china di una pericolosa “irrilevanza”? Solo perché – ammesso che riesca a rimanere “irrilevantemente” compatto – M5s funga da “partito utile” al Pd, che da un decennio pretende di governare l’Italia pur non avendo mai vinto un’elezione (neppure quella del settembre 2020)? Non sarebbe invece opportuno sia in termini costituzionali che politici andare a un voto immediato? A favore di un passaggio “rifondativo” del Parlamento vi sono ragioni che numerosi costituzionalisti hanno sollevato sul Sussidiario: e che non sono quelle “apriscatole” imposte da M5s al referendum. Ma soprattutto: un Parlamento indebolito dai Dpcm di un premier non eletto, è comunque democraticamente rappresentativo – in questa fase delicatissima – del Paese descritto dal voto di domenica e lunedì?



Il Sussidiario ha già acceso i fari sul principale fake di merito emerso nelle analisi a caldo del voto: una “sconfitta” del centrodestra. completamente smentita dai numeri, micro e macro. Ma sul piano “narrativo” si possono cogliere almeno due altri bug logici, avvolti in opaca ipocrisia.

Il primo è semplice: perché il voto del settembre 2020 (referendum + 7 rinnovi amministrativi regionali) è così” rilevante” per decidere il futuro della legislatura – “come hanno detto gli italiani” – mentre quello del maggio 2019 (rinnovo Europarlamento) non lo è invece potuto essere? Diciassette mesi fa – in una consultazione di scala nazionale-europea di profilo prettamente politico – “gli italiani hanno detto” che dopo un anno di governo giallo-verde la Lega aveva largamente sostituito M5s come primo partito nazionale. I grillini, anzi, ne erano usciti perdendo metà della loro “rilevanza” elettorale, mentre il Pd non ne aveva riguadagnata: era a cavallo di quel 20% di minimo storico riportato alle politiche dell’anno prima e non sostanzialmente modificato oggi.



L’esito del dopo-voto 2019 è ancora passato prossimo. Il partito (democraticamente) “preferito dagli italiani” invece di assumere più peso nel governo del Paese ne fu cacciato. I due partiti “irrilevanti” funsero dal canto loro da cavalli di Troia del nuovo – rilevantissimo – commissariamento europeo del Paese. E la continuazione di questa situazione è una prospettiva più che realistica nel dopo-voto 2020: che alla fine non appare così diverso da quello di un anno fa, anche se molti si affannano a descriverlo come rovesciato.

Un primo elemento di fatto è giunto proprio oggi, con la presentazione a Bruxelles della cosiddetta “riforma degli accordi di Dublino” sulla gestione Ue dei flussi migratori. Il “piano von der Leyen”- al di sotto di qualche ritocco di superficie – sembra ricopiare nella sostanza gli Accordi di Dublino 2013. L’Italia è destinata con ogni probabilità a restare – come sotto i governi Letta, Renzi e Gentiloni (e Conte 2) – il Paese di primo approdo, incaricato di farsi pieno carico di sbarchi e accoglienza e senza obblighi reali di riassorbimento per gli altri Paesi Ue. “Tutto cambierà senza che nulla cambi veramente”, naturalmente, in contropartita degli aiuti del Recovery Fund, centellinati fra il 2021 e il 2027.

Nel frattempo, tuttavia, l’Italia che vogliono il Pd di Luca Zingaretti e il M5s di Luigi Di Maio – si dice candidati a un’alleanza strategica – sembra raccogliere sempre meno consensi nelle costituency fino ad oggi roccaforti del voto “democratico e antifascista”. La prevalenza del No al referendum in alcuni centri storici della grandi metropoli è un dato che molti media hanno considerato poco rilevante, forse perché imbarazzante da commentare.

Nel 2018 i collegi centrali di Milano hanno eletto tre deputati e un senatore di centrosinistra: confermando sia la forza dell’elettorato del sindaco Beppe Sala, ma anche la rilevanza di una categoria politologica. “Giovane laureato in grande città”: l’identikit è stato riproposto da Nando Pagnoncelli, ma per descrivere oggi un segmento forte del “fronte del No” (con l’aggiunta del “Centronord” come connotazione geografica). Quindi: gli elettori milanesi che hanno votato centrosinistra (più Sala ed Emma Bonino che il Pd di Matteo Renzi) per “resistere” alla Lega egemone in Lombardia oggi votano contro il Pd di Zingaretti per resistere a M5s. Votano secondo l’indicazione dei Romano Prodi: “grande vecchio” del centrosinistra, unico vincente alle urne con quelle insegne nelle sette elezioni politiche susseguitesi dal 1994. Votano No – nel centro di Bologna, popolato di Sardine giovani, laureate eccetera – al 12% in più rispetto alla media regionale.Votano No nel centro di Roma: amministrata da Virginia Raggi –  sindaco M5s per eccellenza – nel capoluogo della regione tuttora personalmente governata da Zingaretti. Votano No nel centro di Torino del Comune-avamposto di Chiara Appendino e del ministro Paola Pisano. Nella Padova universitaria, da cui è partito Arturo Lorenzoni (lo sfidante Pd di Luca Zaia, con esito 77 a 16 per il secondo), ha invece vinto nettamente il Sì.

Ma l’esito pare seguire soprattutto il plebiscito tributato tre anni fa al referendum regionale sulla riforma istituzionale proposta da Zaia: l’autonomia rafforzata al Veneto, per renderlo più rilevante rispetto all’Italia finita nel frattempo sotto il controllo di Zingaretti e Di Maio. Del ceto politico capitolino e del populismo meridionale, con l’assistenzialismo come solo denominatore comune.