È decisamente un brutto spettacolo veder mescolati, sui media, l’appello all’unità nazionale lanciato dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e il gossip sulla “guerra delle nomine” nelle aziende pubbliche. Mentre le terapie intensive del Nord Italia traboccano di malati gravi e di medici in prima linea; mentre scuole e università sono chiuse per la più grave emergenza nazionale nella storia repubblicana; mentre centinaia di migliaia di piccole e medie imprese (private) si sono ritrovate nell’arco di una notte nelle trincea di sopravvivenza, mentre lo stesso Quirinale si è sentito in dovere di rassicurare gli italiani che tutte le istituzioni del Paese sono impegnate allo stremo, a Roma è business as usual.



L’affarismo politico è quello di sempre nel suo culmine periodico: le nomine ai vertici di gruppi controllati dallo Stato. È stato rinviato un referendum su una radicale riforma del Parlamento, perfino un totem nazionale come il calcio è stato obbligato a cambiare abitudini. Invece il bazar frenetico sulle poltrone di Eni, Enel, Poste, Finmeccanica e altro è lo stesso, immutabile. Cosa avrebbe potuto impedito al governo di prorogare per un anno i vertici in carica? Invece quello del potere economico di Stato sembra refrattario a ogni virus (assieme, sembra, alla “macchina” delle nomine giudiziarie al Csm).



Evidentemente è troppo importante per i generali dimezzati di M5s occupare l’occupabile: per loro difficilmente ci sarà una seconda volta anche per poter pilotare nomine clientelari in snodi ancora importanti dell’Azienda-Paese. Ma lo stesso imperativo sembra valere per Italia viva e per il suo leader che ha pilotato le ultime; o per il Pd custode più autentico di vecchi riti. Sarà d’altronde curioso vedere se – in forme tacite e opache – qualche compromesso di circostanza vedrà allargato il tavolo delle nomine anche a qualche forza d’opposizione.

Il regista dell’ufficio-nomine rimane comunque il Tesoro: retto per l’occasione da un vetero-statalista di formazione marxista come Roberto Gualtieri. Un ministro che ha già mostrato di non aver remora per regole e galateo intromettendosi nella gestione editoriale della Rai (dove il Mef dovrebbe attenersi strettamente al ruolo di azionista, lasciando al Parlamento la vigilanza sul servizio pubblico televisivo). Non sorprende veder Gualtieri impegnato soprattutto su Mps: una banca fallita perché egemonizzata fuori tempo dalla politica (la stessa che oggi esprime Gualtieri, ndr) e quindi salvata con 5 miliardi dei contribuenti. Oggi in ogni caso il Monte è il giocattolo forse più affascinante nelle mani del primo degli uomini di governo italiani: che – stando al Presidente della Repubblica – starebbero invece lavorando a corpo morto per il bene comune di tutti gli italiani.



L’abbozzo di “decreto economico coronavirus” uscito da Via XX Settembre conferma invece che Gualtieri sta chiaramente lavorando ad altro. È poco più di un comunicato stampa con un titolo: 7,5 miliardi stanziati. Di questi ultimi, si apprende, 6,3 miliardi proverranno da nuovo debito, salvo – ovviamente – autorizzazione della Ue. Premesso che si tratta di una cifra del tutto inadeguata, un commento sintetico sgorga spontaneo: di mettere due cifre così su una lettera a Bruxelles è capace qualsiasi italiano in possesso di istruzione obbligatoria. Un vero ministro dell’Economia – assieme a quello dello Sviluppo, del Welfare, della Famiglia e forse in testa quello della Salute, naturalmente sotto la supervisione del premier – dovrebbe decidere come spendere queste risorse in quest’emergenza. Invece da palazzo Chigi sono usciti alla rinfusa i desiderata (elettorali) dei vari ministri. Scarabocchi sugli stessi post-it con cui evidentemente nelle stesse ore, all’interno della maggioranza giallo-rossa, si sta giocando il ben più interessante risiko delle nomine.

L’altro giorno il leader di FdI, Giorgia Meloni, giorno ha tacciato il governo e il suo premier di “atteggiamento criminale”. Conte ha risposto come due domeniche fa nei salotti televisivi di fronte al propagarsi dell’epidemia: di essere “sorpreso”. Nessuno, nel frattempo, si è levato a rivolgere a Meloni l’accusa-mantra della stagione giallorossa: “linguaggio d’odio”. Nessuno naturalmente si è sorpreso. L’unità nazionale – si sarebbe detto un tempo – è una cosa seria: che i governanti seri devono mostrare di meritare.

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