Con l’estate 2022 è iniziata la sesta stagione di “Codice – La vita è digitale”, il programma di RaiUno che si propone di diffondere la conoscenza delle innovazioni in ogni campo. Autrice, conduttrice ed elegante padrona di casa, oramai specializzata nel raccontare tutto ciò che di straordinario e moderno nasce ai quattro angoli del mondo, è Barbara Carfagna, una delle migliori giornaliste/autrici della Rai in assoluto, sia per capacità di conduzione che per la chiarezza della dizione, oltre che per la cura del montaggio.
Dietro la perfezione degli aspetti formali, Codice, però, nasconde un baco: conduttrice e autori paiono aedi di un ineluttabile transumanesimo, tanto sono in linea con le teorie di Juval Harari, che aveva detto: “Se l’innovazione corre, noi dobbiamo correre ancora più in fretta, per evitare di stare indietro”.
Ed è così che, dimentichi dei flop di Second Life e – più recentemente – dei Bitcoin a lungo osannati dalla Carfagna, nella prima puntata di Codice si sono gettati pancia a terra nel tessere le lodi del Metaverso, ancora ai primi vagiti, ma già capace di far comprendere ai più avveduti quali rischi può far correre a esseri umani già instupiditi dalla pericolosa pervasività di internet.
Al momento, il Metaverso non sembra tanto diverso dalla realtà virtuale di tanti anni fa: per muoversi nel suo mondo occorrono uno speciale visore e una buona connessione.
Se si rivela molto adatto per immergersi nei videogiochi, le tanto decantate applicazioni per uso civile (tipo il nostro avatar che può parlare direttamente con quello del Sindaco di una grande città) lasciano molto a desiderare per il rudimentale e schematico rendering degli ambienti. Tutta la novità starebbe quindi nel ridurci a pupazzetti che incontrano altri pupazzetti in un mondo virtuale nettamente più brutto e povero di quello naturale? Se questo è quanto di meglio ci può offrire l’Intelligenza Artificiale, siamo messi davvero male.
Assai rilevanti sono gli aspetti negativi: “Il Metaverso è l’ultimo tentativo di distaccare la coscienza dal corpo“, afferma il prof. Faggin, il fisico che ha inventato il microchip, il cui giudizio è assai più affidabile di quello degli “esperti” startuppari che affollano la trasmissione.
Ciononostante, del Metaverso la conduttrice e alcuni intervistati parlano con una particolare luce affascinata negli occhi, come se avessero appena incontrato l’araba fenice.
Nella seconda puntata sono rispuntati i robot, altra incomprimibile passione della redazione. È ricicciato il solito modesto robottino dell’Istituto Italiano di Tecnologia, mentre è apparsa la nuova creatura del mitizzato ricercatore giapponese Hiroshi Ishiguro, che quest’anno è una simil-femmina. Si è indugiato sulla meraviglia dei movimenti facciali ottenuti con l’uso di micromotori capaci di muovere una pelle assai simile a quella umana. Purtroppo, però, le espressioni risultanti non sono molto lontane da quelle dei pupi siciliani (guardare per credere), e nonostante gli entusiasmi di conduttrice e autori, non si capisce proprio dove sia la novità, né perché si investano così tante risorse in campi di così scarsa utilità. Un conto sono i robot di supporto alla medicina, ma osservando il lavoro di Ishiguro con un minimo di senso critico, si comprende perché la spasmodica ricerca di un antropomorfismo esasperato per una macchina – pur dotata di intelligenza artificiale – non possa portare da nessuna parte.
Cavalcando l’onda del nuovo a tutti i costi, apprendiamo anche delle nuove frontiere dei farmaci ricavati da droghe psichedeliche. Questo e molto altro, mescolato a notizie più oggettivamente sensate, spiega il limite di Codice. Che non vuole essere un programma divulgativo per ammissione della stessa Carfagna, ma un reportage di tutte le novità nel campo delle innovazioni di qualsiasi tipo, dell’Intelligenza artificiale, della robotica, dell’informatica e via dicendo. Possibilmente scovate e raccontate prima di altri: ecco qual è il problema di fondo.
Va detto che ogni tanto compaiono intervistati che cercano di spiegare proprio i limiti che l’Intelligenza artificiale non dovrebbe valicare, e pure i rischi antropologici dell’eccessiva antropomorfizzazione di una macchina (vedi Padre Paolo Benanti o la prof. Maria Rosaria Taddeo). Il problema è che lo fanno con un linguaggio talmente alto che pochi saranno in grado di comprenderlo. Mentre la loro presenza è bilanciata – e verso il basso – da un curioso filosofo come Cosimo Accoto, convinto che sia giunta l’ora di riconoscere dei diritti ai robot. E con questo è tutto detto.
Alla fine, il pur divertente e interessante “Codice” mostra il suo baco, che è quello già da tempo evidenziato dal ricercatore K.R. Thòrisson, fondatore dell’Icelandic Institute for Intelligent Machines: “Tutti vogliono essere al passo con i tempi, dalle università, alle aziende, al governo, e pensano che l’intelligenza artificiale sia il grande tema del futuro. Ma in realtà siamo nell’era della stupidità artificiale“. Sarebbe poi davvero meglio seguire il consiglio di Carly Kind, Direttrice dell’inglese ADA Lovelace Institute: “Vediamo di non usare la società come banco di prova per tecnologie che non sappiamo ancora come cambieranno la società. Proviamo a riflettere su alcuni di questi argomenti, muoviamoci più lentamente e sistemiamo le cose, invece di muoverci velocemente e romperle“.
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