Ancora otto giorni prima dell’invasione russa dell’Ucraina, la Ue giudicava Ungheria e Polonia meritevoli delle stesse sanzioni per gravi infrazioni rilevate sul terreno dei diritti civili incastonati nella storia e nei principi democratici dell’Europa contemporanea. Era metà febbraio e la stessa Unione che ieri si è divisa nel Consiglio sull’escalation delle sanzioni alla Russia via embargo petrolio è stata compatta (in sede di Corte di giustizia) nel comminare sanzioni potenzialmente miliardarie in euro a Varsavia e Budapest.
Vladimir Putin stava ammassando le ultime truppe al confine ucraino (e polacco…) ma il triangolo Bruxelles-Strasburgo-Lussemburgo si è mostrato inflessibile: alcune misure regolamentari adottate dal governo di Mateusz Morawiecki sull’ordinamento giudiziario in Polonia e dal “super-premier” Viktor Orbán su giustizia e media in Ungheria andavano colpite da sanzioni finanziarie multimilionarie scalate “a punti quotidiani” sugli aiuti decisi da Recovery Plan post-Covid.
Cento giorni dopo, la guerra russo-ucraina ha apparentemente separato i destini dei due “cattivissimi” paesi membri dell’Est europeo: leader dell’“opposizione interna” all’Europa tecno-tedesca, riuniti nel cosiddetto Gruppo di Visegrad, assieme a Repubblica Ceca e Slovacchia. La Polonia è tornata “bianchissima” per meriti Nato (ovvero Usa): cioè per aver spalancato le frontiere ai profughi ucraini (ma non prima di averle tenute chiuse a quelli da Africa e Medio Oriente). È diventata “esempio dell’Europa che vogliamo” per aver fatto da tappa al presidente americano Joe Biden e alla speaker “dem” della Camera di Washington, Nancy Pelosi, entrambi in visita al fronte ucraino come se fosse il 38esimo parallelo fra le due Coree. La Polonia che funziona da retrovia operativa della Nato in campo in Ucraina ha così ha visto “sanificate” le fotocronache di pochi mesi fa: che ritraevano con le piazze di Varsavia piene di dimostranti contro il governo conservatore-sovranista di “Legge e Giustizia”, confermatosi graditissimo agli Usa in funzione anti Russia/Bielorussia.
La “gemella” Ungheria è invece piombata nel frattempo in un inferno nerissimo: soprattutto dopo che – già in piena guerra – ha decretato il quarto successo elettorale per Orbán. Tanto che non è facile stabilire se il “veto” di Budapest ieri in Consiglio Ue all’embargo al petrolio russo sia più causa o più effetto di una spirale conflittuale tutta interna all’Europa “di ieri”; il prodotto di una “disruption” in corso da tempo nell’architettura politico-istituzionale della Ue, tutt’altro che risolta dalla vittoria di Emmanuel Macron alle presidenziali francesi.
È più pericoloso Orbán che nel 2022 chiede da dentro la Ue di discutere la posizione sulla crisi geopolitica, oppure il premier britannico Boris Johnson che – dopo aver concretizzato lo strappo-Brexit – spinge l’Ucraina a continuare la guerra contro la Russia “fino alla vittoria definitiva”? E in che misura la Polonia in odore di “democratura” presso le istituzioni Ue – addirittura più dell’Ungheria – viene improvvisamente riabilitata soltanto perché funzionale al massimalismo Usa sullo scacchiere ucraino?
Ungheria e Polonia sono entrambe state ammesse nella Ue nel 2004: 15 anni dopo la caduta del muro di Berlino. Sono ambedue Stati-nazione con un passato importante nella storia europea moderna e il posto al sole del nuovo “Vecchio Continente” se lo sono guadagnato. L’’Ucraina non può invece celebrare stelle di testimonianza liberaldemoratica oltre Cortina come Imre Nagy o Alexander Dubcek. Kiev potrà vantare molte ragioni per pretendere oggi la solidarietà della Ue e non solo la protezione militare della Nato. Ma il suo ingresso nell’Unione non è mai stato in agenda: neppure nell’agenda di Kiev, neppure in quella di Volodymyr Zelensky. Fino alla fine dello scorso febbraio nessun capo di Stato o di governo della Ue-26 avrebbe mai seriamente proposto la chiamata dell’Ucraina (in coda a una lista d’attesa che da anni associa i tre Paesi teatro dell’ultima guerra balcanica in Europa – Serbia, Bosnia e Montenegro – oltre all’Albania, alla Macedonia del Nord e alla stessa Turchia). Nessun tecnocrate di Bruxelles avrebbe assegnato chance minime di allineabilità europea a un Paese considerato da tutti gli osservatori una “democratura oligarchica”, economicamente sottosviluppata, spaccata dal nazionalismo, teatro di una guerra civile da 14mila morti, inadempiente agli accordi di Minsk de 2014. Eppure il suo presidente viene oggi salutato come una sorta di “rifondatore dell’Europa” – mentre attacca ogni giorno la Germania – e laddove il premier ungherese è trattato di fatto come una quinta colonna di Putin nella Ue. La leadership polacca rimane nel frattempo un presidio Usa nella stessa Ue, ma nessuno sembra ricordare più – nell’Occidente europeo – quando ha appoggiato le piazze “democratiche” di Varsavia come nel 2014 Maidan a Kiev.
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