Ursula Von der Leyen, intervista ieri sulla Stampa, ha presentato il “suo piano per una Ue a basse emissioni”. Il piano europeo punta a terminare l’economia dei combustibili fossili e per farlo amplia lo spettro di attività inquinanti che dovranno pagare una tassa sull’emissioni di CO2. La lista di quello che si può dire su questo piano è sterminata, ma in cima a questa lista di preoccupazioni ci sono due criticità evidenti e su cui la Presidente della Commissione europea non si sottrae. Il primo punto è il costo di questa transizione su famiglie e consumatori.
Le tecnologie “verdi” oggi disponibili sono molto lontane dall’essere economiche come quelle tradizionali e la loro “naturale” inaffidabilità comporta molti costi. A pagare per la transizione saranno i consumatori in una misura che si espande con il progredire delle tasse sulla CO2 e limitazioni alle risorse tradizionali. Man mano che si sostituiscono gli idrocarburi con pale eoliche, pannelli solari e si sostituisce il parco macchine sarà più evidente il loro costo in termini di aumento dei costi energetici, “delle bollette”, dei beni di largo consumo prodotti con l’elettricità, cioè tutti; le aziende oltretutto possono scaricare sui consumatori gli extra costi solo entro un certo limite oltre il quale semplicemente decideranno di produrre di meno e solo per i più ricchi alzando i prezzi.
Ursula von der Leyen è ben consapevole del problema, che graverà sulle fasce più deboli, e propone come soluzione alla “povertà energetica”, per usare le sue parole, “adeguati compensi” per “i redditi più bassi” con la creazione di un fondo sociale per il clima per “assicurare che le famiglie a basso reddito ricevano un sostegno per la mobilità e il riscaldamento”. Non ci sono dubbi quindi che i costi della transizione energetica non sono sostenibili per le classi meno abbienti. La soluzione è un gigantesco meccanismo di tasse incassate dal governo europeo, pagate da imprese e da tutti i consumatori, e poi redistribuite ai più poveri.
Scopriremo presto quanto sia efficiente il pubblico in questa operazione e quanto poi saranno neutrali dal punto di vista politico le redistribuzioni. Il mezzo di questa operazione, in ogni caso, è un’espansione eccezionale del ruolo dello Stato in economia per fini su cui si suppone non ci sia niente da discutere e sulle cui conseguenze i consumatori non sembrano perfettamente informati.
C’è un secondo problema evidente che von der Leyen non si esime da affrontare. Se l’Europa impone alle sue imprese questi costi cosa succede alla competitività dei suoi prodotti rispetto alle importazioni da Paesi che invece non le impongono? La soluzione europea è l’imposizione di una tassa sui prodotti importati da Paesi che non hanno regole simili. Per un continente esportatore e assemblatore la questione non è affatto banale. Qualcuno potrebbe scambiare queste tasse per protezionismo, ma il presidente della Commissione ci assicura che sarà fatto compatibilmente con “le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio”. Se queste regole fossero introdotte su tutti i prodotti importati da Paesi senza regole ambientali ci sarebbero però enormi problemi politici e l’impatto sui consumatori e sulle famiglie europee oltre che sulle imprese manifatturiere che importano componentistica sarebbe enorme. Il rischio in questo caso è quello di ammazzare la competitività delle imprese europee per non dover imporre costi ai consumatori insostenibili. Nel lungo termine il rischio è quello di una deindustrializzazione selvaggia. Ricordiamo che l’Europa è responsabile di una quota bassa dell’emissioni di CO2 globale. Ci sono Paesi, se vogliamo accettare questo punto di vista, che ne emettono molte di più.
Mentre gli europei leggono questa intervista, Reuters ci informa che le importazioni di carbone in Cina hanno toccato il livello più alto nel 2021 spinte dalla domanda per la generazione di energia e dall’attività industriale; nell’America di Biden, invece, i permessi per l’estrazione di gas e petrolio sul suolo americano toccano il livello più alto dai giorni dell’Amministrazione Bush. Sembrerebbe quasi che chi vuole essere certo di avere un futuro manifatturiero non sia così sicuro della “transizione energetica” fatta a colpi di eolico e solare liberandosi delle fonti tradizionali su cui, tra l’altro, ci sono stati e ci sarebbero ancora ampissimi spazi di miglioramento ambientale. Non parliamo poi di nucleare con il Sud Africa, per dire, che sceglie il sito della sua nuova centrale.
Questa “rivoluzione green” in salsa europea sembra una riedizione del socialismo reale: tutti più poveri per un mondo migliore grazie ai piani quinquennali, rigorosamente verdi, dello Stato. Siamo troppo pessimisti? Lo scopriremo a breve. In ogni caso più Stato e meno società è la soluzione ai nostri problemi.
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