La crisi delle relazioni geopolitiche tra le grandi aree economiche sta mandando in frantumi l’intero impianto delle politiche economiche dell’Ue fondato sulla relazione virtuosa del surplus generato dalle esportazioni rispetto ai costi dell’energia e dei beni importati, e dalla stabilità della moneta assicurata dai vincoli per i bilanci pubblici dei Paesi aderenti.
Il passaggio dall’utilizzo incondizionato della spesa pubblica per contrastare gli effetti economici della pandemia Covid-19, dall’evocazione degli effetti virtuosi della transizione digitale e ambientale all’esigenza di razionalizzare l’utilizzo delle risorse disponibili, è stato brusco. Tale da minacciare la stessa sopravvivenza delle Istituzioni dell’Ue. I sondaggi di opinione mettono in evidenza un elevato livello di scostamento tra gli orientamenti delle opinioni pubbliche e delle forze politiche dei singoli Paesi e la scelta delle Istituzioni europee di accelerare la costruzione di un esercito comune.
Il divario è destinato ad aumentare quando saranno evidenti le conseguenze economiche e sociali del ridisegno delle relazioni politiche ed economiche tra gli Stati Uniti e la Cina, entrambe interessate a ridimensionare il peso delle Istituzioni europee nelle relazioni internazionali e a considerare il nostro continente come area di approdo di beni e servizi orientati dalle grandi potenze.
In effetti, ciò che rimane dell’Europa è un aggregato di popolazioni benestanti, di risparmiatori, di produttori e di consumatori, numericamente superiore alle altre grandi aree economiche, ma incapace di valorizzare queste potenzialità per l’assenza di interessi comuni e di una governance capace di mobilitare le risorse disponibili per questo scopo.
In queste condizioni è del tutto auspicabile che nel breve trovino un riscontro positivo i tentativi di trovare compromessi ragionevoli che facciano cessare l’uso delle armi in Ucraina e Palestina.<
Ma la messa in discussione degli equilibri e delle istituzioni internazionali che hanno accompagnato la globalizzazione delle relazioni economiche e politiche negli anni 2000, auspicato dall’intesa sottoscritta da Xi Jinping e da Putin del gennaio 2022, è un dato di fatto, consolidato dalle prese di posizione della maggioranza dei Paesi del Sud globale e dai pronunciamenti del Presidente Usa Trump.
L’altra novità acquisita è rappresentata dal ritorno in auge del ruolo delle Istituzioni statali e della ricostruzione in questo ambito dei rapporti con le grandi imprese di origine e delle rispettive tecnocrazie che godevano di un’ampia disponibilità di scelta nel mobilitare le risorse e localizzare gli investimenti nel corso della globalizzazione degli scambi internazionali.
La mobilitazione delle risorse interne sta avvenendo sulla base di un filo conduttore che mette in stretta relazione gli investimenti tecnologici, quelli militari e la regolazione degli scambi commerciali con le altre nazioni del globo. Questa evoluzione sta comportando una perdita dei vantaggi competitivi e una svalutazione degli asset produttivi e del capitale delle grandi aziende multinazionali, in particolare quelle statunitensi. È un disegno che comporta inevitabilmente anche una capacità di orientare la narrazione degli eventi per costruire il consenso delle opinioni pubbliche e delle classi dirigenti per gli scopi desiderati.
Se queste analisi hanno un fondamento possiamo comprendere quali implicazioni possono avere per il futuro degli Stati europei. Tutto l’impianto delle politiche economiche rimane orientato a favorire la competizione intraspecifica tra le imprese europee, con i relativi divieti per gli aiuti di Stato per quelle delle singole nazioni.
Per queste finalità primaria sono stati approvati trattati, regolamenti e direttive che orientano l’impiego delle risorse pubbliche e private. Le scelte operate per guidare le transizioni ecologica e digitale sono un assemblaggio di desideri e di vincoli imposti per i comportamenti delle istituzioni, delle imprese e dei consumatori, senza un’adeguata valutazione dell’impatto economico e sociale di queste scelte e dei mezzi che dovrebbero essere mobilitati per raggiungere gli obiettivi.
La precarietà delle Istituzioni europee è figlia di quella dei Paesi aderenti, dell’atteggiamento delle forze politiche nazionali e dell’orientamento delle pubbliche opinioni. Buona parte delle quali, se non la maggioranza, manifesta un’esplicita contrarietà all’idea di potenziare il ruolo delle Istituzioni europee.
La ricerca di compromessi fondati sull’allentamento dei vincoli del Patto di stabilità per finanziare la spesa e le missioni militari su base volontaria, su deroghe temporali per il conseguimento degli obiettivi prefissati di risparmio energetico, hanno le gambe corte. Manifestano l’esigenza di un percorso di riforme, ma anche l’impossibilità di renderle strutturali per l’esercizio dei diritti di veti da parte dei singoli Paesi aderenti all’Ue.
L’alternativa praticabile è quella degli accordi sovranazionali tra i Paesi, Gran Bretagna compresa, intenzionati a partecipare attivamente al ridisegno degli equilibri geopolitici politici ed economici sulla base di interessi condivisi. In tal senso, la scelta della maggioranza delle forze politiche del Parlamento tedesco di derogare ai vincoli di spesa del Patto di stabilità per finanziare le spese per la difesa militare rappresenta la presa d’atto della fine di un ciclo delle Istituzioni europee che apre scenari inediti anche per gli schieramenti politici tradizionali di ogni Paese aderente.
Un’apertura importante, perché operata dal Paese storicamente ostile alle deroghe per i vincoli di bilancio, ma che è stata votata dalla maggioranza del Parlamento uscente che non trova conferma nei numeri scaturiti dalle recenti elezioni.
Il futuro dell’economia sociale di mercato, dell’originale combinazione tra libertà individuali e beni collettivi che caratterizza l’originalità del modello europeo, dipende dalla volontà manifesta di difenderlo e di mantenerlo competitivo da parte dei Paesi del nostro continente.
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