Il ballon d’essai lanciato dal cortile mediatico italiano sulla candidatura di Mario Draghi alla Presidenza della Commissione Ue è stato subito sgonfiato dall’interessato con un virgolettato informale ma poco equivocabile alla Reuters. La mossa è risultata comunque maldestra: candidare Draghi a Bruxelles in corsa dall’Italia – dall’opposizione di centrosinistra – nei giorni in cui il Governo italiano è impegnato nella stretta finale su patto di stabilità e Mes non prospettava benefici per nessuno. Solo rischi di polveroni tossici, primo fra tutti lo scenario – completamente fake – di un Draghi “commissario democratico” dall’Europa di un’Italia governata dal centrodestra. Con palazzo Chigi scavalcato dall’Europa, ritorcendo contro Roma il predecessore di Giorgia Meloni, non eletto per quanto autorevole.
L’accostamento del nome di Draghi al risiko dei grandi incarichi Ue in preparazione per il dopo-eurovoto 2024 ha tentato di riverniciare come scoop alcuni fatti noti da tempo. Il primo: l’ex Premier italiano è effettivamente una “riserva” disponibile e prestigiosa in una “Repubblica europea” drammaticamente impoverita di leader veri, in una fase in cui l’Europa ha invece necessità di guide solide forse come non mai nei suoi 66 anni di storia. In secondo luogo, non è un mistero che Draghi goda della stima del Presidente francese Emmanuel Macron: sicuramente il meno politico fra i leader Ue, vantando invece un background finanziario e tecnocratico come quelli dell’ex Premier italiano. Non da ultimo: se c’è una sensibilità politica cui – verosimilmente – Draghi si sente personalmente vicino è quella liberaldemocratica: e Renew Europe (il contenitore liberale al Parlamento europeo, partner terzo e robusto nella tradizionale coalizione con popolari e socialdemocratici) ha come riferimento indiscusso l’Eliseo macroniano.
Su questo sfondo sarebbe certamente scorretto escludere Draghi dalle rose per un vertice Ue in fase “ricostituente”. È anzi probabile che il suo nome possa risultare addirittura uno dei primi nei pourparler pre-elettorali; o emergere come ultimo e decisivo in una prevedibile maratona posto-voto (nel luglio 2019 i capi di Stato e di governo del Ventisette impiegarono tre giorni e due notti per assegnare i top jobs Ue). Ma nelle cancellerie e ai vertici dei network politici europei (compreso Ecr, che ha come leader di fatto la premier italiana Giorgia Meloni) è noto che l’incarico cui il profilo di Draghi appare più congruente – e che nel caso l’interessato potrebbe prendere in considerazione – è quello di Presidente del Consiglio Ue, non di numero uno della Commissione.
È la poltrona forse meno matura, tuttora, nell’architettura istituzionale Ue, oggi alla vigilia di una svolta obbligata (poco matura è anche quella di Alto Commissario per la Politica estera e la sicurezza; ancora in incubazione è quella di “Alto Commissario alle finanze”). Nelle democrazie europee – a eccezione di quella semipresidenziale francese – non manca mai una figura costituzionale di sintesi e garanzia al vertice dello Stato. E le presidenza della Repubblica in Italia o Germania – assai più che il modello di monarchia diffuso del Nord Europa – emerge come format naturale e tendenziale per la casella di alta garanzia istituzionale disegnata dai Trattati di Maastricht e Lisbona. Un identikit che finora non è stato sviluppato dal Premier polacco Donald Tusk (da poco tornato in carica a Varsavia) o da due ex Premier belgi (Hermann von Rompuy e l’uscente Charles Michel).
Non potevano d’altronde essere loro – o il Premier nazionale Presidente semestrale di turno dell’Ue – a diventare gradualmente “il telefono a cui si chiama” a Bruxelles (il copyright è di Henry Kissinger, appena scomparso) ogni giorno in caso di necessità (negli ultimi quattro anni sempre: fra un’emergenza Covid e una guerra). Non potevano vestire loro i panni del portavoce quotidiano ma reale e prezioso del Ventisette leader del Consiglio Ue, che detengono collegialmente il potere decisionale ultimo in Europa, ma si riuniscono solo a intervalli mensili.
Il ruolo di “Mr Europa” non poteva essere ricoperto nell’ultimo quinquennio neppure da Ursula von der Leyen: Presidente di una Commissione che esercita poteri importanti e consolidati, ma che resta – letteralmente e opportunamente – “esecutiva”. Draghi ha invece tutte le carte in regola per muoversi da “volto dell’Europa” e far compiere alla Presidenza Ue un salto di qualità ormai ineludibile per comunicare con la Casa Bianca (o con Pechino) non in sovrapposizione alla Commissione, ma “aggiungendovi valore” in un contesto geopolitico molto più complesso e sfidante. L’avvento di un identikit come quello di Draghi può fra l’altro risolvere in modo virtuoso fraintendimenti o addirittura conflitti emersi ultimamente fra Michel e von der Leyen. E sul fronte interno l’ex Presidente Bce si profila come quasi-indispensabile nel promuovere e gestire una fase straordinaria: in cui può rivelarsi insufficiente o addirittura controproducente la governance esistente, articolata fra leader nazionali, Commissione e un Parlamento politico ancora in mezzo al guado dopo 45 anni.
Nel frattempo non può essere considerata casuale – ma anzi simbolica – la caduta anticipata e contemporanea di due dei tre Vicepresidenti esecutivi di von der Leyen. Due settimane fa il “primo Vice” – il socialista olandese Frans Timmermans, tornato in patria come candidato Premier – è stato il vero sconfitto nel passaggio elettorale che ha visto l’affermazione clamorosa della destra anti-europea di Geert Wilders. L’elettorato di uno dei Paesi fondatori dell’Ue ha bocciato il primo dei “mandarini” di Bruxelles (nonché della sinistra europea “antropologicamente superiore”): lo “zar” della transizione verde intesa come ideologia tecnocratica. Ma negli ultimi giorni è apparsa perfino più rovinosa la fine di Margrethe Vestager.
La “zarina” danese dell’Antitrust Ue – per due mandati quinquennali – si era candidata a un pensionamento di lusso: la presidenza della Bei, la storica banca di sviluppo dell’Unione, in fase di rilancio fra Recovery Plan, transizione energetica e militare e ricostruzione dell’Ucraina. L’ex Vicepremier liberale di Copenaghen ha invece perso – a dispetto di tutti i pronostici iniziali – contro l’ex ministro dell’economia spagnola Nadia Calvino. A Vestager è stata fatale la scelta spregiudicata di un’avvocata americana per il ruolo di chief economist della Concorrenza Ue: proprio quando i colossi digitali Usa sono i “nemici pubblici numero uno” dell’Europa, oggi sul fronte dell’Intelligenza Artificiale. Ma si è trattato di un “ultimo errore” esemplare di un’intera cultura istituzionale consolidatasi a Bruxelles nell’ultimo trentennio. Quella che ha posto al vertice del più potente commissariato Ue un ministro di un Paese come la Danimarca, che non aderisce all’Eurozona. Un Paese europeo ma non del tutto.
Degna gemella scandinava, Vestager, del norvegese Jens Stoltenberg: Segretario generale della Nato, ex Premier di un Paese europeo ma fuori dall’Ue. E la Nato ha sede sempre a Bruxelles. dove – evidentemente – tutti i palazzi sembrano dover cambiare in fretta per non far affondare strutture sovranazionali ancora per molti versi ferme al secolo precedente.
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