Era inevitabile che sui media italiani rieccheggiassero con molto fragore i due scivoloni familistici in cui Giorgia Meloni è incorsa in un solo giorno: la designazione della sorella Arianna al vertice di Fdi, mentre il marito Francesco Lollobrigida – ministro dell’Agricoltura – rilasciava  dichiarazioni più che discutibili su alimentazione e povertà. Come ha rilevato Giorgio Vittadini in un’intervista al Corriere della Sera, a quasi un anno dalla vittoria elettorale la Premier auto-alimenta periodicamente dubbi sullo spessore della sua leadership, politica e di governo: sulla sua “competenza”, anzitutto, a circondarsi di persone realmente competenti.



È singolare che proprio giovedì Meloni abbia invece registrato due punti a suo favore sul più delicato dei versanti internazionali: quello dei mercati. Il Financial Times – portavoce ufficiale di Borse e investitori e da sempre severo con la premier italiana “di estrema destra” – ha dedicato nella stessa edizione due distinti column alle ultime iniziative di Roma a scuotere l’albero del big business europeo: il progetto di price cap alle tariffe aeree e quello sulla tassa straordinaria sugli extra utili bancari. Dopo settimane di puro fuoco di sbarramento – rabbioso e insultante – dal quotidiano della City sono giunte per la prima volta riflessioni analitiche sui entrambi i dossier. È arrivato un implicito riconoscimento – ancorché critico – del profilo politico-economico degli approcci di Roma ai grandi nervi lasciati scoperti dalla crisi geopolitica: l’inflazione e i “sovraprofitti di guerra”.



Titolo: “L’Italia vola in direzione sbagliata col suo progetto di price cap”. Sottotitolo: “Ma le compagnie aeree hanno fallito nel comprendere che i clienti infuriati avrebbero fatto della politica un vincitore con gli occhi alle elezioni”. Ancora, nel testo: “Il Governo italiano, nel suo intento di limitare gli algoritmi profilativi, presume che l’industria del trasporto aereo sia più tecnologicamente attrezzata di quanto non sia in realtà”. Dunque, in sintesi: Meloni continua a fare il suo sporco mestiere di Premier “fascista”, di politicante populista di un inguaribile Paese mediterraneo eccetera. Noi nella City continueremo a strillarle nelle orecchie, facendo il nostro mestiere di difensori istituzionali della grande finanza liberista, ma stiamo un po’ esaurendo gli argomenti. È invece mister Ryan – con i suoi fratelli e cugini nei diversi paesi e settori – che dovrebbe cominciare a fare qualcosa per non passare da “pescecane del carovita”. Anche perché il Governo italiano avrà pure qualche problema di comunicazione, ma ce l’hanno anche i lobbisti dei “pescecani”: a parte quelle di FT e di Moody’s, non una voce autorevole si è levata a criticare le mosse italiane su linee aeree e banche. Anzi, il silenzio – soprattutto dall’Europa politica  – sta evidentemente aumentando la preoccupazione nella City: qualche altro Paese europeo – magari grande, magari in avvicinamento alle elezioni continentali del giugno 2024 – potrebbe essere tentato di entrare nella scia aperta dal “lavoro sporco” di palazzo Chigi. Meglio – senz’altro per FT – abbandonare arroccamenti pregiudiziali sugli squali dell’inflazione: il rischio è di “volare in direzione sbagliata” negli Usa, fra Joe Biden e Donald Trump; o anche a Londra, dove i laburisti neo-blairiani incaricati di sconfiggere i tory brexiter al potere stanno ovviamente difendendo le rivendicazioni anti-inflazionistiche di paramedici, insegnanti e ferrovieri. Una windfall tax sul più importante distretto bancario del mondo non sarebbe affatto privo di senso in un Paese che – postosi fuori dall’Europa – è diventato il “malato d’Europa”.



Sulla stessa tassa bancaria italiana, la correzione di rotta del quotidiano della City è molto visibile già nel titolo della seconda analisi. “Quel legame fra la tassa straordinaria della Meloni e il bilancio gonfio della Bce”. Ancora una volta, in estrema sintesi: Meloni e il ministro Giancarlo Giorgetti avranno pure tentato una giocata ai limiti del regolamento, ma sono andati in percussione sulle falle aperte da quindici anni di politica monetaria e creditizia decisamente anomala da parte della Bce. In particolare, nell’inerzia di lungo periodo del Quantitative easing, Francoforte  “sembra aver molto meno il controllo dei tassi d’interesse che le banche offrono ai depositanti”. FT – giornale totalmente schierato a favore della guerra Nato in Ucraina – non si spinge a mettere completamente a fuoco che il triangolo (enorme) che Meloni ha puntato: quello fra fiammata inflazionistica, tassi rialzati in fretta dalla Bce (anche sui prestiti alle imprese) e persistenti tassi-zero sui conti correnti. Ma la questione è comunque evidente e non sarà una burocratica letterina di richiamo della Bce a derubricarla, magari solo fra qualche settimana.

La “tassa italiana sulle banche” non è il frutto di una cattiva e isolata alzata d’ingegno da parte di una Premier sud-europea che qualcuno prova ancora ad avvicinare alla meteora britannica Liz Truss. Che le banche abbiano realizzato “extra profitti” (come le big “oil & gas”, come le linee aeree eccetera) è pacifico anche nella City: dove, anzi, hanno ben chiaro quanto ormai siano usurati gli appelli etico-patriottici alla prosecuzione della guerra e il parallelo silenzio mediatico sugli “squali” di ogni razza arricchitisi nel frattempo in tutti i mari agitati dalla guerra.

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