Negli ultimi giorni sui grandi media anglosassoni lo spazio riservato alle reazioni politico-culturali alla crisi di Gaza – anzitutto negli Stati Uniti – è cresciuto fin quasi a superare notizie, analisi e opinioni sull’escalation militare e diplomatica in Medio Oriente. Ma non vi sono ragioni per stupirsene.
Le manifestazioni pro-palestinesi (se non apertamente pro-Hamas) promosse da una trentina di associazioni studentesche della Harvard University e la risposta interlocutoria delle autorità accademiche in nome della libertà di espressione stanno già producendo impatti concreti e senza precedenti. E sono ormai solo l’epicentro simbolico di un sisma che sta scuotendo tutti gli States: dagli storici atenei della East Coast fino a Chicago e alla California
In gioco non ci sono solo gli sviluppi di culture war non meno cruente di quelle reali: ci sono 60 miliardi di dollari di donazioni private all’anno al sistema universitario. Ci sono le elezioni presidenziali fra un anno: i missili di Gaza possono colpire di rimbalzo i democratici Usa proprio quando i repubblicani in maggioranza alla Camera stanno offrendo uno spettacolo istituzionalmente suicida, spaccandosi all’infinito sull’elezione dello Speaker.
La School of Government di Harvard – intitolata all’icona dem John Kennedy, l’alunno più celebre del campus di Boston – ha subito perso l’appoggio di due miliardari finora pilastri dei fundraising: l’israeliano Idan Ofer (un finanziere con interessi dai trasporti marittimi fino all’energia, dalle auto elettriche fino all’Atletico Madrid) e Leslie Wexner, figlio di ebrei russi immigrati negli Usa e magnate nei beni di largo consumo. Intanto la Davis Polk – grande firm internazionale di avvocati con base a New York – ha annunciato di aver ritirato alcune delle offerte di lavoro tradizionalmente indirizzate ai laureati della Harvard School of Law: quella in cui hanno studiato Barack e Michelle Obama e che condivide con Yale uno storico duopolio sulla prima formazione dei futuri giudici della Corte Suprema. Ai donors infuriati si è immediatamente unito un prestigioso ex presidente di Harvard: Larry Summers, economista israelita, già segretario al Tesoro nell’Amministrazione Clinton. E – soprattutto – si sono mossi rapidamente una settantina di docenti di nome, che hanno chiesto al vertice di Harvard una condanna ferma di Hamas, finora non giunta.
Per quanto possa sembrare un paradosso, nel mirino è finita Claudine Gay: eletta pochi mesi fa primo presidente “afro” – nonché seconda donna – nei 368 anni di storia di Harvard. Un apparente traguardo avanzato conseguito dalla cultura politically correct in una delle istituzioni-tempio del progressivism d’Oltreoceano. Ma Gay – una scienziata politica – si è ritrovata colpita dall’improvviso scoppio di un’intera bolla di contraddizioni.
Le associazioni studentesche che hanno protestato contro Israele – come le loro antenate negli anni 60 del secolo scorso contro la guerra in Vietnam – hanno fatto senza dubbio rivivere il principio del free speech: costitutivo della civiltà americana, soprattutto nelle sue storiche cittadelle universitarie. Dunque: così come una democrazia sana (come quella statunitense dal 1776) funziona nel libero confronto politico, la miglior scienza – fra Harvard e Berkeley – non può che maturare nella libertà di ricerca ed espressione.
Ma è stato proprio il politically correct oggi egemone nei grandi campus Usa a mettere in discussione la sostanza di questo modello, piegandolo a tendenze come la cancel culture o il favore pregiudiziale per le cosiddette “minoranze perseguitate”. E l’ennesima guerra in Palestina ha reso drammaticamente evidenti i dilemmi non solo culturali cui il fanatismo cancel può condurre: accusando Israele di “perseguitare” la “minoranza palestinese” si giunge fatalmente a cancellare la terribile memoria dell’Olocausto, alla base della nascita dello Stato d’Israele. In cui è peraltro rinato – 75 anni fa – un popolo storicamente “minoranza dispersa”, infine decimata nei lager nazisti.
Nell’universo del free speech, di tutto si può e si deve parlare: ma questo sembra ormai impossibile allorché gli studenti hanno deciso di parteggiare “a prescindere” per i palestinesi come per Black Lives Matters o per ogni causa LGBTQ+; e si sono abituati (o sono stati abituati, ad esempio sulle pagine del New York Times) a “perseguitare” docenti o colleghi di studio che dissentono (soprattutto se dissentendo, sostengono le ragioni del diritto di Israele a difendere con mezzi militari un’identità etnico-religiosa: tutte categorie bandite dal politically correct).
Dall’altra parte i grandi donatori che alimentano i ricchissimi endowment degli atenei Usa d’eccellenza – che il politically correct ha rimodellato attorno al principio assoluto dell’inclusione e della non-discriminazione – non sembrano disposti a tollerare nelle “loro” università una libertà di pensiero e parola che metta al centro del dibattito la “sicurezza dello Stato di Israele”. Neppure quando il lungo “regno” di Bibi Netanyahu a Gerusalemme – ispirato al nazionalismo religioso – ha sollevato aperte critiche anche nella comunità ebraica Usa e negli ambienti accademici dominanti.
Su questo sfondo sembrano giungere al pettine i nodi sociopolitici profondi del politically correct: cresciuto sull’offensiva globalista della “fine della storia” (teorizzata proprio ad Harvard), e ritrovatosi infine non nei panni attesi del vincitore definitivo, ma nella trincea del resistente assediato dal “nativismo” complesso incarnato da Donald Trump. Il quale è stato peraltro il realizzatore degli “Accordi di Abramo” che perfino Joe Biden ha tentato fino all’ultimo di realizzare nella missione impossibile di stabilizzare il Medio Oriente.
Ancora negli anni 90 in una figura come quella di Summers convivevano in simbiosi varie anime: l’ebraismo sionista strettamente connesso in America con i democrat di governo e consolidato nella leadership a Wall Street, nelle grandi università, nei media e nello showbiz. È in questo “brodo di cultura” che ha preso forma il politically correct: come pretesa di “includere” tutto e tutti nella “globalizzazione reale”. Nei fatti si è invece rivelato come un tendenziale strumento di dominio culturale da parte di un’élite “senza frontiere” – i Davos people – emersa dalle fratture aperte della diseguaglianze crescenti.
Il paradosso finale è che ad Harvard – aperta all’inclusività meritocratica globale dalle grandi donazioni private attratte dal blasone liberal – la presidente politically correct è sotto tiro dai grandi donatori perché gli studenti “inclusi” contestano Israele dopo i morti del 7 ottobre. Ma il paradosso più sorprendente e insidioso è che gli stessi studenti di Harvard contestano il presidente kennediano e obamiano che ha sconfitto Trump nel 2020 e (al momento) dovrà reggerne una nuova sfida per la Casa Bianca fra dodici mesi.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI