Negli ultimi giorni si sono rincorse voci di “telefonate segrete” fra la Premier italiana Giorgia Meloni e Donald Trump, ri-candidato repubblicano per la Casa Bianca il prossimo novembre. Come nel 2020, Trump sfiderebbe Joe Biden, Presidente “dem” in carica, cui Meloni ha da poco reso visita a Washington. Siano o no attendibili l’indiscrezioni – in una fase in cui lo spionaggio politico-mediatico è alle cronache giudiziarie – non c’è dubbio che la questione sostanziale esista: come potranno evolvere i rapporti fra Italia e Usa a seconda dell’esito delle presidenziali? Senza naturalmente dimenticare che l’Italia è parte integrante dell’Ue, che a sua volta terrà elezioni generali fra poco più di due mesi, per rinnovare il suo Parlamento e la sua governance.
La questione è resa certamente particolare dalla crisi geopolitica in corso in Ucraina e Medio Oriente, ma appare di per sé più strutturale. E – almeno riguardo lo scacchiere italiano – non è neppure indispensabile riandare alle radici della contemporaneità: l’ingresso dell’Italia democratica nell’Occidente “americano” dopo l’ultima guerra mondiale. È sufficiente traguardare all’indietro un decennio o poco più: quello iniziato con la cesura del 2011. Allora Silvio Berlusconi – tutt’altro che sgradito agli Usa per l’intera Seconda Repubblica, immediatamente dopo la Caduta del Muro di Berlino – viene scalzato da palazzo Chigi su spinta non ultima di Barack Obama (il cui vice era Biden). Il Cavaliere – pur eletto con larga maggioranza al voto 2008 – pagò l’eccessiva autonomia nei rapporti con la Libia di Gheddafi e la Russia di Putin, fra politica e affari (il Cancelliere socialdemocratico tedesco Gerhard Schroeder non gli era stato con il Cremlino da meno, ma ha pagato solo dopo lo scoppio della guerra ucraina).
Appare difficile contestare che da allora l’Italia sia tornata a essere fortemente condizionata dai “desiderata” di Washington: benché sia stata a lungo visibile la mano dell’Europa germanocentrica, dominata da Angela Merkel. Il copione recitato pressoché ininterrottamente è stato unico: un Quirinale “dem” (prima con Giorgio Napolitano poi con Sergio Mattarella, entrambi in doppio mandato) hanno suggerito – e garantito all’esterno – soluzioni di governabilità al Paese in chiave sui stabilità occidentale. Un quadro in cui, non a caso, il Pd è stato quasi sempre nelle stanze dei bottoni pur non avendo mai vinto elezioni politiche. In cui solo in Italia può essere stata percepibile la differenza fra Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni nella legislatura 2013-2018. E in cui il Governo Monti e il Governo Draghi, visti da Washington, hanno certamente avuto una stessa cifra tecnico-istituzionale anzitutto nella loro interfaccia Ue. Ancora: è stata una fase in cui Giuseppe Conte – spuntato dall’oscurità come premier fra M5S e Lega – viene “adottato” da Trump e dai leader europei e re-incollato a capo di un esecutivo M5S-Pd, finalizzato soprattutto alla “sottrazione” della Lega alla maggioranza.
L’avvento di Giorgia Meloni è avvenuto in un contesto diverso. Dal 2008, è stata la prima Premier sostenuta da una netta affermazione elettorale: a capo di una coalizione che ha archiviato un decennio caratterizzato da un centrismo indistinto e opaco, all’interno di una democrazia a bassa intensità (significativo fra tutti il numero di Premier non eletti). Pur essendo a capo di una forza di destra (forse impropriamente giudicata “populista”), Meloni si è ritrovata oggettivamente “in campo americano” essendo stata l’unica leader a presentarsi al voto 2022 con un posizione chiara sulla crisi: a favore di Usa e Nato e contro la Russia. La posizione è stata poi replicata all’inizio della crisi di Gaza: laddove l’atteggiamento si è via via evoluto in aderenza alla crescente perplessità di Washington sulle operazioni di Israele nei Territori, mentre la presenza operativa di unità navali italiane nel Mar Rosso ha invece confermato una “lealtà” concreta (anche a confronto dell’ultimo, fumoso neo-bellicismo francese verso la Russia).
Rispetto al “benchmark 2011” o in passaggi successivi, appare più definita e soprattutto meno debole la posizione dell’Italia nell’Ue. Il rapporto fra Meloni e la Presidente (ricandidata) della Commissione Ue Ursula von der Leyen sembra andare oltre le apparenze personali e precludere a uno snodo-cardine della nuova governance Ue fino al 2029. Ed è un tassello politico (nel centrodestra europeo in ricomposizione) fatto anche di fedeltà atlantica: assolutamente più compatibile con i “desiderata” di Washington degli ondeggiamenti della Francia di Macron o – peggio – della Germania di Scholz. Se a novembre Biden sarà rieletto, è probabile che von der Leyen (se sarà confermata) e la stessa Meloni ne usciranno rafforzate. È invece a ora illeggibile l’impatto – non solo su di loro – di un possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca. Ma se von der Leyen ha già sposato una linea di riarmo europeo (in sé congruente con l’intento di Trump di diminuire l’impegno Usa nella Nato), il “post-europeismo pragmatico” della Premier italiana promette di essere meno problematico – in un futuro dialogo transatlantico – di un invecchiato europeismo tecnocratico e ideologico. Non per questo il sentiero fra Usa e Ue – fra i due voti – si annuncia meno stretto per Meloni.
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