La Fed è nell’occhio del ciclone, accusata di non aver saputo né prevenire, né gestire da sé la crisi bancaria scoppiata nella Silicon Valley. La banca centrale del dollaro era già da un anno sulla griglia politico-mediatica per non aver stroncato sul nascere il rigurgito inflazionistico e per averlo poi inseguito con condotte erratiche e poco convincenti.
Nei fatti il presidente Jay Powell continua a scontare anzitutto un peccato d’origine tutto politico: l’essere stato nominato da Donald Trump, che per i “dem” riapprodati alla Casa Bianca nel 2020 resta un “male assoluto”. Su un piano più strettamente macro-economico, la Fed di Powell ha ereditato un decennio pieno di politiche monetarie e fiscali estremamente espansive volute dagli otto anni di Barack Obama (con Joe Biden vice) all’indomani del great crash del 2008; e dagli otto (sfasati di due) di Janet Yellen al vertice della stessa Fed, come vicepresidente e quindi governatrice.
Quella politica di tassi zero e “denaro gratis” (anzitutto alle banche con la motivazione di metterle in sicurezza) era stata impostata da Tim Geithner, primo segretario al Tesoro di Obama (oggi Biden ha messo in quella posizione la Yellen). Geithner nel 2008 era il capo della Fed di New York: e con tutta evidenza aveva vigilato poco e male su Lehman Brothers e le sue sorelle di Wall Street. E si è poi prodigato per preservarne il ruolo (depotenziando la riforma bancaria messa a punto da Paul Volcker, il presidente Fed vittorioso contro l’inflazione da choc petroliferi negli anni ’70). Val la pena di notare anche che ad aver vigilato poco e male sulla Silicon Valley Bank è stata negli ultimi mesi la Fed di San Francisco: presieduta da Mary Daly, un’allieva (“dem”) della Yellen, che a sua volta aveva presieduto la Fed californiana dal 2004 al 2010. Un’intera scuola di economisti, tecnocrati e politici con molti sodali in Europa: tutti convinti che il capitalismo “thatcher-reaganiano” (finanziario liberomercatista e globalizzato) avesse funzionalità e legittimità solo se “di sinistra” (copyright in Italia: Alberto Alesina e Francesco Giavazzi).
Da penultimo: è vero che è stata l’Amministrazione Trump a inondare gli Usa di sussidi pubblici nel primo e più duro anno della pandemia (non diversamente da tutti gli altri Paesi spazzati dal Covid), ma è altrettanto vero che Biden, dal novembre 2020, non ha affatto tirato le redini alla spesa pubblica. Anzi: la sua campagna elettorale è stata tutta basata su promesse di maggior interventismo finanziario statale, poi non mantenute sul versante sociale e virate invece sugli aiuti alle imprese (aiuti prima “verniciati di verde”, poi contraddittoriamente ri-etichettati in corsa come “anti-inflazionistici”).
Da ultimo: il deflagrare della crisi geopolitica – anche per la decisione della Casa Bianca di contrastare l’aggressione russa all’Ucraina con una politica di sanzioni – ha avuto come effetto immediato un rialzo dei prezzi improvviso e globale; aggravando di molto via energia i focolai accesi dalla crisi delle catene di rifornimento sui diversi mercati delle materie prime e dei prodotti industriali. In realtà l’escalation economica era iniziata prima di quella militare: quando la (disastrosa) ritirata Usa dall’Afghanistan aveva verosimilmente convinto Vladimir Putin della possibilità di muovere sull’Ucraina, iniziando già nell’estate 2021 la “guerra del gas”.
Bastano questi frammenti di annale per capire su quale teatro la Fed di Powell abbia dovuto muoversi: con regole del gioco formali che affidavano alla banca centrale il controllo “indipendente” dell’inflazione attraverso i tassi, a loro volta prezzi di mercati ormai liberi e privatissimi come quelli del credito e delle Borse. Ed è questo snodo cruciale che merita quanto meno un richiamo d’attenzione in una fase in cui la cosiddetta “democrazia occidentale” è attaccata per via geopolitica e messa in discussione su quello politico-culturale.
La Fed si è vista rovesciare entrambi i suoi tavoli operativi: la stabilità dei prezzi e la stabilità bancaria. Glieli ha rovesciati il “government” (“dem”): con le sue decisioni di politica estera e interna (qui con sospetti di rapporti opachi con i due settori principali della Corporate America: l’hi-tech e la finanza; oltreché con l’industria “green”). La grande burocrazia guidata da Powell si è dunque ritrovata a disposizione il solo strumento dei tassi (in sé di efficacia limitata e infine rischiosa) per assolvere a tutte le “missioni”: controllare l’inflazione con una guerra “erratica” in corso, dovendo nel frattempo osservare (impotente) la Silicon Valley Bank e le sue sorelle esporsi a rischi impliciti nella scommessi di rialzi dei tassi limitati e transitori (sempre nella reticenza di Biden sulla guerra e di Yellen sul budget).
Su uno sfondo già di per sé molto complesso, si sono inserite con parecchia evidenza le dinamiche (di segno opposto) di un’altra mega-burocrazia di Washington: il Pentagono, il “moloch militar-industriale” per eccellenza. denunciato già sessant’anni fa da Dwight Eisenhower, l’ultimo dei dodici generali che hanno abitato la Casa Bianca.
Il repubblicano Eisenhower – il liberatore dell’Europa e l’iniziatore della Guerra Fredda – era succeduto al “dem” Harry Truman: passato alla storia non solo per aver deciso il primo e finora unico bombardamento nucleare “tattico” della storia, ma anche per aver rimosso il generale Douglas MacArthur (il “dioscuro” di Eisenhower in Asia/Pacifico) che voleva sganciare ordigni atomici sulla Cina nella prima fase della guerra di Corea (che appare sempre più il “canovaccio storico” dell’approdo del conflitto russo-ucraino).
Il primato delle istituzioni democratiche di governo sulle burocrazie militari appare tema di attualità tanto scottante quanto è invece elusivo il dibattito pubblico, ormai tredici mesi dopo l’avvio della “guerra guerreggiata” in Ucraina (e in parte anche attorno a Taiwan).
Chi ha deciso, chi sta decidendo cosa sul teatro ucraino? Il segretario alla Difesa Usa, Lloyd Austin, “militaresco” capotavola ai summit Nato? E lui veste in decisioni formalmente politiche gli input del presidente Joe Biden o dei suoi generalissimi? E alla Casa Bianca c’è confronto reale con il responsabile della diplomazia Usa, il segretario di Stato Antony Blinken? E con la Yellen, formalmente responsabile del “fronte interno” dei prezzi e delle banche? E quale ruolo hanno i servizi d’intelligence “civili” (la Cia) e militari (la Dia)? Quale intensità ha, infine, il lobbismo dell’industria militare, già da tempo ben visibile nei media che lamentano gli arsenali vuoti e decantano le meraviglie dei droni sperimentati nell’inimitabile poligono-laboratorio ucraino?
La certezza rimane una sola: la “nuova Guerra fredda” non l’ha decisa la Fed. E Powell è stato nominato da un Presidente che le guerre le aveva quanto meno silenziate. Compresa quella “in sonno” in Ucraina: scoppiata quando alla Casa Bianca c’era Obama e il suo vice Biden era delegato al dossier Kiev.
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