In questi giorni stiamo tutti vivendo il grande Mistero del Natale, che si snoda tra situazioni drammatiche come la guerra e gesti di grande bontà, che nascono nel cuore di tante persone, più di quante non si creda. La crudeltà della guerra, che assume spesso dimensioni devastanti, come ci rimandano le immagini di intere città distrutte, trova una vasta eco nella stampa; mentre i piccoli gesti di una quotidianità che si fa servizio verso persone spesso sconosciute resta nascosta nel silenzio di uno stile di vita personale, senza ostentazione. È quel volontariato di prossimità che risponde a bisogni concreti, individuati in persone altrettanto concrete, che spesso ci passano accanto, e non hanno voce per chiedere, ma ci rivolgono solo uno sguardo.



Mi piace pensare che questo volontariato di prossimità nell’esperienza cristiana sia nato con i pastori, lassù sulle montagne, mentre erano impegnati a custodire il proprio gregge. Qualcuno ha detto loro che era appena nato un Bambino, che giaceva in una grotta, con una madre poco più che adolescente, povero, come più povero non si poteva immaginare. E loro si sono messi in cammino portando quel che avevano, senza farsi problemi, per offrire ascolto e attenzione; affetto e sostegno, in definitiva un po’ di sé. Erano poveri che si prendevano cura di altri poveri.



È questo il senso profondo di un volontariato di prossimità, inteso come una dimensione sospesa tra il sistema di welfare formale, organizzato, a volte fin troppo regolato, e l’azione personale, come l’aiuto dato ad un possibile amico. Costituisce una grande ricchezza nell’esperienza umana e in particolare nella visione cristiana della vita, quella che il Natale sollecita ogni anno nella intimità del cuore di ogni persona. Abbiamo tutti bisogno degli altri e prima o poi questo bisogno si farà urgente e non potrà essere ignorato.

Il volontariato di prossimità è qualcosa di sottile, impalpabile, concreto, e non di rado costituisce l’elemento più efficace della coesione sociale. Consiste in una rete di supporto, fatto di piccoli gesti di servizio, espressione di un rapporto personale significativo tra chi ha bisogno di cura e chi sa ascoltare e condividere. Qualcuno che, nonostante la frenesia tipica del nostro tempo, sa comunque trovare tempo per gli altri. Un tempo di qualità anche per fare una telefonata, scrivere un messaggio e non limitarsi alla standardizzazione dei Whatsapp tuti uguali, ripetuti all’infinito.



La “prossimità” nasce dall’esperienza di un bisogno condiviso: prima o poi tutti abbiamo bisogno degli altri e su questa reciprocità si misura il grado di civiltà e di progresso di una società, che invecchia e fa esperienza di solitudine e di perdita di autonomia, ancor più che di povertà materiale. Prossimità, quindi, come disponibilità a sentire come propri i problemi di chi è accanto. Senza sostituirsi all’altro con un atteggiamento di tipo assistenziale, paternalistico, ma coinvolgendo le persone in una soluzione costruita insieme.

Questo tipo di volontariato è una scelta, che si rinnova in molteplici occasioni durante la giornata, e in innumerevoli rapporti familiari e sociali, perché implica la volontà di mettersi in gioco. In controtendenza rispetto all’individualismo del nostro tempo, in cui siamo tutti presi da problemi e difficoltà personali, per cui è facile rimandare a dopo, e dire “oggi non posso”! È un tempo di incertezze e incognite: siamo tutti soli, pur vivendo in mezzo a tanta gente che ci ignora e non si cura di noi. Assistiamo ad un mutamento antropologico caratterizzato da nuove e diverse forme di solitudine, che scaturiscono dalla crisi della famiglia, dalle conseguenze di una denatalità prolungata, da un potere di acquisto che si riduce sempre più.

Siamo tutti più poveri e più soli e abbiamo sempre più bisogno che qualcuno si prenda cura della nostra fragilità, condividendone le cause e forse, quando ci sono, i rimedi. È necessario intraprendere un viaggio nella profondità dell’animo umano, cominciando dal nostro, con una lettura in controluce rispetto all’epoca in cui viviamo. Occorre rompere gli schemi con cui la tecnologia ci illude di poter accorciare spazio e tempo per facilitare un incontro virtuale che lascia un sapore amaro in bocca. Non si può vivere di Whatsapp come non ci si può sentire gratificati da un like in più… occorre superare l’anonimato delle grandi città, spesso giustificato dal bisogno di una sicurezza che sfocia inevitabilmente nella solitudine. È uno degli inviti che Papa Francesco ci rinnova continuamente. È una buona ginnastica dell’anima che ci fa uscire dal nostro individualismo per farci cogliere che accanto a noi c’è qualcuno simile a noi che sta attraversando un momento difficile: possono essere difficoltà fisiche, economiche, affettive, professionali o familiari.

Gli interventi di prossimità racchiudono in sé un insieme di elementi positivi. Non sono mai paternalistico-assistenziali, ma possono generare livelli di benessere sociale difficilmente conseguibile con strategie basate sulla semplice offerta di servizi.

Il tessuto sociale in cui viviamo è molto frastagliato; sono sempre più evidenti, elementi di chiusura e lontananza tra le persone, malamente sostituiti dalle relazioni virtuali offerte dai social media. Questo contesto, per chi vive situazioni di difficoltà, porta ad un acuirsi delle distanze e le persone rischiano di scivolare in situazioni di maggiore isolamento e povertà sociale, economica ed educativa. Oltre agli aiuti economici e ai servizi predisposti da enti pubblici e dal terzo settore, è sempre più importante investire sulla rete dei rapporti umani abbandonando la tentazione di una efficienza senza relazioni significative; servono azioni concrete che portino ad un recupero della socialità e dell’aiuto di comunità. Si stanno ridefinendo i modelli tradizionali di welfare e di partecipazione civica, attraverso una relazione diretta e reciproca tra individui e comunità. Occorre creare ecosistemi relazionali duraturi. E anche questo possiamo farlo diventare un trend per questo anno giubilare.

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