In un’intervista a un quotidiano Maurizio Landini ha ricordato l’anniversario dell’assassinio di Massimo D’Antona il 20 maggio 1999, per opera dello stesso commando di brigatisti pezzenti che due anni dopo uccisero Marco Biagi. Caddero sotto il piombo omicida due tra i migliori giuslavoristi di quella che potremmo definire la generazione di mezzo, allievi dei grandi maestri del secondo dopoguerra (Biagi di Federico Mancini, D’Antona di Renato Scognamiglio) con una caratteristica in comune: quella di mettersi a disposizione delle istituzioni. Entrambi collaborarono con i Governi allora in carica (Massimo D’Antona fu anche sottosegretario) e con le grandi organizzazioni sociali ed economiche del loro tempo.
Come ha ricordato Landini, D’Antona fu a lungo il coordinatore della Consulta giuridica della Cgil. Io l’ho conosciuto in quella circostanza, perché uno dei compiti che svolgevo nell’ambito della segreteria della Cgil era quello di essere il punto di riferimento politico della Consulta stessa. Anche se ho lavorato con Massimo per anni (fui molto riconoscente alla moglie Olga che mi volle a ricordare insieme a lei il decimo anniversario della sua uccisione), non mi arrogo il diritto di attribuirgli delle opinioni su quanto è intervenuto nel diritto del lavoro nei 25 anni che ci separano da quel tragico 20 settembre del 1999. Landini, senza nemmeno averlo conosciuto, ostenta la sua consueta sicurezza anche nell’interpretazione del pensiero di Massimo: “Si è affermata una legislazione del lavoro – ha dichiarato nell’intervista – che nulla ha a che fare con l’insegnamento di D’Antona. E un modello di impresa fondato sul basso costo del lavoro, sulla precarietà e sulla logica di subappalti, esternalizzazioni, gare al massimo ribasso, anziché su investimenti, sicurezza, qualità del lavoro e innovazione”.
Per farsi un’idea dell’insegnamento di D’Antona il Segretario della Cgil potrebbe leggere il profilo che ne fece un altro grande giuslavorista, Umberto Romagnoli, recentemente scomparso, molto vicino alla Cgil, su di un saggio pubblicato da Ediesse dal titolo “Giuristi del novecento”. Mi limito a citare un brano di Romagnoli, pur sapendo di non esaurire né la complessa personalità di Massimo, né l’affettuosa interpretazione che ne dà Umberto: “Scrivendo che «la rappresentanza generale del lavoro attraverso le grandi centrali sindacali» costituisce uno dei «pilastri» del diritto sindacale e del lavoro del Novecento, Massimo si chiedeva – scriveva Romagnoli – se esso avrebbe resistito ai sommovimenti tellurici che lo scuotono, perché «non è per nulla chiaro» – annotava con giustificata inquietudine – «se si tratti di assestamento o di imminente crollo». Di una cosa soltanto era sicuro: il nuovo secolo ha fretta e si spazientirebbe se le grandi centrali sindacali arrivassero in ritardo agli appuntamenti. Per esperienza diretta, però, sapeva che le grandi centrali sindacali sono come le petroliere. Anche questi natanti virano, ma la manovra ha ritmi lenti”
Anche la petroliera Cgil è intenta a virare; il suo problema però non sono i ritmi lenti, ma la direzione di marcia. I quattro referendum su cui sta raccogliendo le firme rappresentano un salto indietro nella storia, perché prendono a riferimento un piccolo mondo antico che esiste solo nei sonni inquieti di Maurizio Landini, secondo il quale in Italia il mondo del lavoro ha visto fin dagli anni ’90 conculcare i propri diritti e dilagare la precarietà per colpa della legislazione che cominciò a essere adottata in quegli anni fino alla deflagrazione del Jobs Act. Nell’analisi di Landini emerge sempre un’ eterogenesi dei fini: sono le leggi che mettono in moto processi sbagliati? Oppure costituiscono il tentativo del legislatore di introdurre regole nuove all’interno di processi reali che non si ritrovano più in quelle vecchie? Il compito del giurista è quello di portare la regola e le tutele laddove non esistono o non sono adeguate, non quello di avvalersi di norme definite in un altro contesto alla stregua di una cintura di castità.
Torniamo a Romagnoli. “Per incontrarsi col nuovo che avanza il diritto del lavoro deve poter realizzare «modelli regolativi capaci di seguire la persona nelle sue attività» agendo in modo che non sia il concreto contesto organizzativo nel quale l’attività si iscrive ad imporre il confine della tutela, perché ci sono dei diritti fondamentali che non riguardano il lavoratore in quanto tale, bensì il cittadino che guarda al mercato del lavoro come ambito di chance di vita e dal lavoro (un lavoro che può anche cambiare nel tempo, un lavoro che può essere autonomo o subordinato) si aspetta identità-reddito-sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua personalità».
Vogliamo seguire insieme il percorso del declino e della rinuncia iniziato negli anni ’90? Prima però è opportuno notare che molte indicazioni provenivano direttamente dalle istituzioni europee. Iniziamo dunque con il c.d. pacchetto Treu che realizza alcune importanti operazioni: il superamento del collocamento obbligatorio pubblico che ormai intermediava solo il 4% degli avviamenti al lavoro restando nei fatti nell’ambito della collocazione delle categorie svantaggiate; l’introduzione del lavoro somministrato che coglieva la duplice esigenza della flessibilità degli organici e dell’accesso al mercato del lavoro; una prima razionalizzazione della Cig per superare le situazioni nelle quali l’ammortizzatore sociale veniva rinnovato per decenni con un effettivo snaturamento della sua funzione.
Un decennio dopo arriva l’indicazione di una maggiore possibilità di utilizzare il contratto a tempo determinato. L’evoluzione normativa a questo proposito è nota: le nuove esigenze riguardavano la possibilità per le imprese di assumere a termine per un periodo senza dover giustificare le condizioni. Dopo alterne vicende, la normativa vigente ha ridotto a 12 mesi questa facoltà prevedendo che trascorso questo limite le assunzioni a termine debbano avvenire unicamente sulla base delle condizioni previste dalla contrattazione collettiva. Non è un mistero che la condizionalità consente di adire in giudizio e che pertanto la totale sospensione di zone franche – com’è previsto in un quesito referendario della Cgil – renderebbe azionabile in giudizio la verifica dell’effettiva corrispondenza a una delle cause in cui è ammesso il lavoro a termine. In questo caso la pretesa della Cgil urta con il buon senso e la ragionevolezza, al pari della guerra agli appalti e subappalti.
Landini ha in mente un sistema che produce a prescindere dalla domanda di mercato (come si fossimo in un’economia pianificata); solo in questo modo le aziende possono avere organici predeterminati e stabili. Se invece, come succede nell’economia globalizzata, le aziende devono andare a cercarsi il lavoro in un ambito di competitività, anche gli organici devono poter essere adeguati, di volta in volta, alle esigenze produttive che potrebbero non ripetersi.
Infine, ecco il nemico pubblico n.1 di Landini: il contratto a tutele crescenti di cui al dlgs n.23/2015 varato nel pacchetto del Jobs Act dal “traditore” della sinistra Matteo Renzi. Eppure quella soluzione aveva chiuso in modo equilibrato la vertenza sull’articolo 18 “che infiniti indusse lutti” alle relazioni industriali. Peraltro questo contratto è già stato mutilato dalla consulta su di un aspetto qualitativo importante: la prevedibilità dei costi del licenziamento per l’impresa essendo la relativa indennità ragguagliata all’anzianità di servizio.
Secondo Landini, “il Jobs Act ha diviso le persone. I nuovi assunti e chi cambia lavoro dopo il 7 marzo 2015 non ha più la tutela della reintegra contro i licenziamenti illegittimi. Questo crea divisione nel mondo del lavoro, tra chi ha più tutele e diritti e chi meno. Di questo chiediamo l’abrogazione. Poi è sotto gli occhi di tutti che l’uso delle false partite Iva non si è mai fermato”. In poche righe il Segretario dalla Cgil mette insieme una serie di strafalcioni: 1) l’adozione del contratto a tutele crescenti non è obbligatoria, poi appunto può valere soltanto per gli assunti dopo il 7 marzo 2015; 2) l’articolo 18 della legge 300 di cui si è festeggiato l’anniversario ieri non esiste più perché è stato novellato dalla legge n.92/2012 dando luogo a una normativa confusa che tuttavia non assicura la reintegra in caso di licenziamento economico e questa nuova disciplina vale per tutti; 3) la reintegra nel c.d. Jobs Act non è più prevista nel solo caso del licenziamento per motivi oggettivi (economico) e non è più garantita neppure dall’articolo 18 novellato.
In conclusione, a tutti i lavoratori (e non solo ai nuovi assunti dopo il 7 marzo 2015) si applica una tutela diversa rispetto a quella prevista dallo Statuto del 1970, ma su questo aspetto il sindacato di Landini non ha nulla da dire.
C’è poi un ulteriore problema. La legislazione del lavoro deve tutelare i lavoratori da pericoli reali. Non inventarseli. Landini non tiene per nulla conto delle tendenze in atto nel mercato del lavoro dove la crisi si è aperta sul lato dell’offerta. Dove i lavoratori non vengono licenziati perché le aziende, per poterlo fare, dovrebbero prima di tutto assumerli. Ma per assumerli dovrebbe trovarne di disponibili e adatti. Ma Landini vive nel suo mondo ideale dove le cose stanno come le vede lui. Il contributo che deve essere dato in una situazione inedita come quella che stiamo vivendo dovrebbe rendere il più possibile fluido il mercato del lavoro, non irrigidirlo come se ci fosse ancora la Fiat di Valletta con i reparti confino.
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