In Italia il caso di Sana Cheema ha fatto scuola, ma al contrario. Ovvero, non nel senso della diffusione, all’interno di alcune comunità d’immigrati di prima e seconda generazione, della consapevolezza che il rifiuto da parte di figlie e sorelle di matrimoni combinati non può essere punito con lo sgozzamento. La minaccia di fare la fine della povera Sana, ricondotta con l’inganno in Pakistan appositamente per essere uccisa, viene invece impiegata come un valido precedente, utile nei confronti di ragazze particolarmente riottose ad assoggettarsi con rassegnazione a modalità che rendono impossibile l’integrazione nel contesto sociale e culturale italiano.



È quando accaduto nuovamente nel bresciano e all’interno di una famiglia di origini pakistane, nella quale i genitori, coadiuvati dal fratello maggiore, insistevano nel prospettare lo stesso destino di Sana alla più grande delle quattro figlie, di cui due minorenni, tutte sottoposte a maltrattamenti anche fisici. Fortunatamente, la polizia, in coordinamento con la procura, è intervenuta per tempo, imponendo il divieto di avvicinamento alle giovani, nonché la sospensione della potestà genitoriale. Un nuovo caso Sana è stato così sventato, ma quante potenziali Sana restano da salvare in Italia?



In tempi in cui immigrazione e integrazione sono divenute una questione ideologica e insieme di mero business, si rende necessario un approccio più sincero e pragmatico, volto a risolvere le questioni reali che si accompagnano a tali problematiche. È, questa, materia soprattutto per le istituzioni e per la politica, da cui è lecito continuare a pretendere l’adozione di provvedimenti davvero efficaci per disarmare il sostrato culturale che, oltre a Sana, è colpevole di aver tolto brutalmente la vita a Hina Saleem, Nosheen Butt, Samia Shadid e Rachida Radi, colpevoli solo di essere integrate.



Gli esperti di lotta al fondamentalismo si moltiplicano, eppure il male è sempre lì, ben radicato a livello territoriale, pressoché inestirpabile, protetto da un approccio all’immigrazione che rende impossibile l’integrazione ed esercita pesanti ricadute in termini di sicurezza, soprattutto sulla vita e sull’incolumità personale delle donne. È il cosiddetto multiculturalismo ad aver fatto sì che tutta l’immigrazione, legale o illegale, venisse considerata buona a prescindere, consentendo le aberrazioni che sembrano esclusiva di mondi lontani, ma che sono invece parte integrante della realtà dell’Italia di oggi.

Il nuovo esecutivo, più rosso che giallo, ha già lasciato intendere che il multiculturalismo deve assurgere a ideologia di Stato. L’opposizione deve quindi pensare non solo a diventare maggioranza, ma a elaborare politiche dell’immigrazione e dell’integrazione efficaci che ribaltino il sinistro paradigma multiculturalista che sta devastando il tessuto sociale italiano. Una battaglia da combattere anche in Europa.