L’amministratore delegato di A2A, la principale utility locala italiana controllata con quote paritetiche dal Comune di Milano e da quello di Brescia, ha dichiarato, nel corso di un convegno a Napoli, che “se ci fosse una maggiore flessibilità dell’industria, sarebbe logico spostare l’industria al Sud”. Secondo l’ad del gruppo quotato a Milano, Mazzoncini, “Putin, con la sua azione dissennata, ha cambiato il baricentro. Ci troviamo con le energie rinnovabili che evidentemente si stanno sviluppando molto più a Sud perché c’è più sole e più vento, ma anche l’hub energetico del gas”, dato che “oggi i 30 miliardi di metri cubi che arrivavano dal Nord Stream arrivano dalle cinque pipeline dell’Algeria, più quelle della Libia”. Se l’ad della utility di Milano e Brescia “propone” questo spostamento diventa difficile ignorare il consiglio.



La capacità di produzione di rinnovabili del sud Italia è strutturalmente maggiore di quella del nord Italia, dove, per esempio, non c’è vento. Il sud produce più energia di quanto ne consumi. Il gas, invece, è diventato una risorsa cara, scarsa e volatile da quando i rapporti economici tra Russia ed Europa sono stati troncati. Spostare energia elettrica da sud a nord costa, anche per un fatto di dispersione, e non è fattibile se non in misura limitata.



La regione con la maggiore capacità solare oggi in Italia è la Lombardia perché lo sviluppo del solare in Italia è legato a investimenti privati spesso personali e famigliari. Gli spazi di crescita al sud sono enormi e aprono a uno scenario, come quello spagnolo, in cui nelle ore centrali della giornata l’offerta di energia elettrica è molto superiore alla domanda e in cui i prezzi crollano. Le condizioni meteo al sud permettono che questa condizione si verifichi con una frequenza molto superiore che al nord. Dal punto di vista del sistema, se questo è il futuro, avere le aziende al sud sarebbe conveniente a prescindere da sviluppi “normativi”.



La prima considerazione è che il sistema industriale, per ottenere questi risparmi, dovrebbe sobbarcarsi un costo altrimenti evitabile. Spostare uno stabilimento richiede investimenti, costi e tempo. La seconda considerazione è che basterebbe cambiare il meccanismo con cui oggi si forma il prezzo dell’energia elettrica in Italia, spostandolo sui prezzi “zonali”, per spaccare il Paese in due: il nord con i prezzi alti e il sud con i prezzi bassi. Non è un caso che proprio in questi giorni il ministero dell’Ambiente abbia approvato un decreto per il superamento del prezzo unico nazionale. Le zone con tanta produzione rinnovabile verranno favorite e godrebbero di un prezzo più basso. Nel caso italiano questo significa prezzi dell’energia elettrica strutturalmente più alti al nord che al sud; tanto più alti quanto più costa il gas. Il “federalismo energetico” avrebbe effetti superiori a qualsiasi federalismo fiscale, ma di queste novità non si trova traccia se non nelle pubblicazioni degli addetti ai lavori. Nei fatti l’Italia, dal punto di vista energetico, verrebbe divisa in due e ciò nel contesto attuale ha effetti dirompenti.

Le fabbriche non si muovono e non si spostano; si possono chiudere e riaprire da un’altra parte, con grandi costi iniziali, quando lo scenario rende concreta la prospettiva di poter beneficiare di costi sensibilmente più bassi per un lungo periodo di tempo da un’altra parte. Questa è esattamente la situazione che si prospetta oggi dopo la fine delle forniture russe e nello scenario attuale del mercato del gas globale. L’Egitto che è un Paese esportatore di gas in questi giorni impone blackout per risparmiare sui consumi di gas per la produzione di elettricità a uso interno. I principali sviluppi di giacimenti di gas sono dall’altra parte del Canale di Suez. In Libia c’è l’esercito russo e quello turco. L’America è dall’altra parte dell’Oceano Atlantico e non ha alcuna intenzione di esporre il proprio mercato interno ai prezzi che ci sarebbero con un’altra crisi del gas europeo.

La parte di Paese che non ha rinnovabili dovrebbe mostrare un senso di urgenza che però non c’è; è chiaro a tutti che spostare le imprese al sud non è una soluzione praticabile, se non i pochi casi, per un’evidente questione di costi e perché il saldo netto, a livello di Paese, sarebbe negativo. Per ogni impresa che decide e può spostarsi ce ne sarebbe almeno un’altra che muore e questo anche mettendo in campo sussidi statali. Semplicemente quello che bisognerebbe spostare è enorme. Poi ci sarebbe una questione di impatto sociale che è tanto grande quando quello economico.

La domanda che ci si pone di fronte a questo scenario è quali siano le preclusioni che si è disposti ad avere. Il nucleare tradizionale non si può, i nuovi invasi sono impattanti, la geotermia non va bene e via discorrendo. Tutte queste preclusioni erano un lusso che ci si poteva permettere quando funzionavano le centrali a ciclo combinato alimentate dal gas russo. Nemmeno si può sperare, in Europa, nell’idrogeno “verde” perché non c’è abbastanza sole perché sia conveniente. Così si “propone” lo spostamento delle imprese al sud con il “pubblico” che non reagisce pensando a una boutade. Non è una soluzione per la Lombardia e non è nemmeno una soluzione per l’Italia per una banale questione di costi.

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