Caro direttore,
la discussa pubblicità dell’Esselunga mi ha ricordato l’impressione che mi fece il commovente tema di una mia alunna di liceo di diversi anni fa. Vi si leggeva il dolore di una ragazzina che non aveva mai accettato la separazione dei propri genitori. Ora si era abituata, ma il dolore permaneva. “È normale – mi dicevano da piccola – tante famiglie sono separate. Ma a me non me ne fregava niente degli altri. E non era normale”. Più o meno questo il contenuto. Lo spot dell’Esselunga ha messo in campo questo dolore, diffuso, diffusissimo.



Ho sentito Bruno Vespa dirsi stupito perché in fondo quello spot parlava di una famiglia oggi “normale”. Che strani tempi i nostri! Una famiglia “normale” è quella che si spacca, che va in frantumi, che lascia ferite. Vespa ha ragione, ma forse si è espresso male, almeno lo spero: la famiglia dello spot oggi è forse statisticamente la più diffusa, in questo senso è “normale”. Se invece la definiamo “normale” in quanto tale, allora non ci intendiamo più e non intendiamo il dolore di una bambina o un bambino, e quel dolore di quella mia alunna.



Lo spot ha fatto discutere perché fa male. Tutto qui. Noi siamo quelli che si commuovono per i diritti delle minoranze (che in quanto tali sono poco percepibili, poco diffuse per definizione); o per i diritti dei lontani (che, a meno che non viviamo a Lampedusa o in zone di confine, non ci toccano più di tanto con le loro tragedie); oppure per i diritti degli animali (che non possiedono la profondità e la problematicità degli esseri umani e quindi ci permettono di essere molto umani senza tanta fatica e di sentirci pure buoni).

Ma quello spot ci butta in faccia il dolore che è tra noi, nelle nostre famiglie, in quelle dei nostri parenti, amici, vicini di casa. Un dolore che vorremmo e vogliamo, se possibile, mettere con un colpo di scopa sotto il tappeto.



Il dolore di quella bambina è quello che ogni giorno chi insegna, soprattutto nella scuola primaria o secondaria di primo grado, deve affrontare, ed assiste a depressioni, insuccessi scolastici, svogliatezza. O più semplicemente vede rabbuiarsi improvvisamente due occhietti che poco prima brillavano spalancati con fiducia sul mondo.

Quello spot ci butta addosso il rimosso e mette in movimento il rimorso, cioè la pura e semplice realtà di una delusione atroce, di un sogno infranto. Siamo noi adulti, cinici e tristi, che imponiamo ai figli un sogno infranto, pretendendo addirittura che sia “normale”. E ammazziamo la speranza.

Quello spot ci butta di nuovo addosso una verità semplice semplice: i bambini ci guardano, ci studiano, si abbeverano a noi come a una fonte dove estinguere la sete. E quindi abbiamo una responsabilità da assumerci, noi che, eterni giovincelli, vogliamo vivere in un’irresponsabile felicità.

Tutto questo in uno spot. In un maledetto (o benedetto) spot pubblicitario, che improvvisamente ci ha rimesso di fronte il rimosso. Un rimosso che grida di essere non “normalizzato”, ma considerato ed accolto.

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