Lo spread è tornato a turbare i sonni del Governo e a mettere in ansia gli italiani. Finora era rimasto sotto traccia, adesso non può più essere nascosto. I rendimenti sui Btp decennali hanno superato il 3%, la quota più alta dal 2018, e la differenza con i Bund tedeschi è salita oltre il 2%, non siamo certo al 5% del 2011, ma resta una soglia preoccupante soprattutto perché limita gli spazi di manovra per la politica economica italiana. 



È finito dunque l’effetto Draghi che aveva tenuto lo spread sotto l’1%? Lo stesso capo del Governo ha ammesso con una battuta di non essere “lo scudo contro qualunque evento”. Tre punti percentuali non sono un dramma, tuttavia rappresentano già un costo aggiuntivo per la finanza pubblica. L’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica presieduto da Carlo Cottarelli ha spiegato che “con un aumento di un punto percentuale dei tassi di interesse sui titoli di Stato, persistente e uniforme lungo la curva per scadenze, la spesa per interessi crescerebbe di tre miliardi nei successivi 12 mesi (e di 39,4 miliardi nei successivi 5 anni). Nel primo anno, la spesa aumenta di due miliardi per il rinnovo dei titoli in scadenza, e di un miliardo per le nuove emissioni per coprire il deficit previsto secondo i piani correnti”. Nel momento in cui le risorse pubbliche servono come il pane per tamponare il rialzo dei prezzi del gas, l’inflazione, l’impatto sui redditi della guerra in Ucraina, sono denari gettati nel vento dei mercati. Non solo. “I dati economici ci dicono che il sentiero stretto di cui parlava Pier Carlo Padoan è diventato un filo sottile”, ha scritto Giampaolo Galli sul Foglio. Vediamo perché.



Il Governo ha stabilito nel Documento di economia e finanza che il deficit pubblico al netto della spesa per interessi debba scendere dal 3,7% dello scorso anno al 2,1%. Risultato tutt’altro che semplice, infatti il Def prevedeva una crescita del 3,1% che andrà quanto meno dimezzata se lo scenario internazionale non cambia. Gli obiettivi di finanza pubblica sono ancor più ambiziosi: il disavanzo primario dovrebbe arrivare allo 0,8% l’anno prossimo fino a raggiungere il mitico pareggio nel 2025. È un percorso cauto, ma in ogni caso significa che ci vorrà una politica fiscale non espansiva per i prossimi tre anni. Diventa un percorso di guerra finanziaria se la guerra militare non si chiude presto e bene. La crescita più forte del previsto l’anno scorso ha ridotto il rapporto tra debito e Pil, ma siamo ancora al 150% rispetto al 135% prima della pandemia. Con gli attuali tassi di crescita monetaria (cioè tenendo conto di un’inflazione che resta in salita) non sembra possibile tornare al livello del 2019. Così ragionano anche gli operatori che comprano i Btp sul mercato e avranno un potere maggiore a mano a mano che la Banca centrale europea ridurrà l’acquisto di titoli pubblici e aumenta i tassi d’interesse. 



In questo scenario da vacche magre s’inserisce la pressione delle forze politiche sul Governo affinché allarghi i cordoni della borsa. Matteo Salvini vanta come proprio successo l’aver rinviato (perché di questo si tratta) un aggravio fiscale dovuto alla revisione del catasto in base ai prezzi di mercato. I grillini hanno fatto fuoco e fiamme per ottenere che il bonus di 200 euro concesso a chi dichiara un reddito inferiore ai 35 mila euro annui venga esteso anche a chi percepisce già il Reddito di cittadinanza. Si leva inoltre una richiesta trasversale ad aumentare la spesa pubblica con un nuovo scostamento dai limiti di bilancio già votati dal Parlamento. Secondo alcuni, invece che andare avanti scostamento dopo scostamento, sarebbe meglio anticipare la Legge di bilancio e prevedere un pacchetto di spesa pubblica corrente (sia sostegni assistenziali, sia incentivi a fondo perduto) anche ampliando il deficit. Le tensioni sullo spread dimostrano che sarebbe una scelta avventurosa, anzi avventuristica, a meno che non ci sia il consenso della Commissione Ue.

È un dilemma molto serio che alcuni pensano di risolvere chiedendo aiuti monetari a Bruxelles. In che modo? Circola la proposta di creare un fondo comune per far fronte alla crisi energetica provocata dalla guerra. Ma come verrebbe finanziato? Ricorrere ai Governi nazionali è pressoché impossibile, ci sarebbero le risorse non distribuite del Next Generation Eu; secondo alcuni ammontano a 200 miliardi di euro, altri le tagliano a metà perché la Spagna sta per prelevare la sua quota di 100 miliardi lasciata in stand-by. Si pensa anche di rastrellare parte degli investimenti non spesi o rinviati per stato di necessità; sarebbe un pasticcio, vorrebbe dire stornare i fondi dagli investimenti alla spesa corrente, quanto di più scorretto una sana politica di bilancio dovrebbe fare. 

C’è un’alternativa, recuperando lo spirito della Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio alle origini dell’Ue: creare un’autorità ad hoc in grado di finanziarsi sul mercato con la garanzia di Bruxelles. Ma ci vorrà tempo e bisognerà in ogni caso ottenere il consenso dei Governi alcuni dei quali già agitano come drappi di guerra il loro potere di veto (si pensi all’Ungheria). Il ritorno dello spread, dunque, ci porta nel cuore della politica europea, della sua forza (la potenza di fuoco sui mercati finanziari) e della sua debolezza (l’unanimità del voto e il potere di veto), consapevoli che dietro le architetture istituzionali si nasconde una spaccatura di fondo sulle alleanze internazionali che rimanda alla natura e al fine stesso dell’Unione Europea. Hic Rhodus hic salta. 

I mercati lo sanno e non vanno tanto per il sottile. Di fronte a questo limite di fondo non ci sono né scudi né maghi, tanto meno draghi.

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