Ieri il Financial Times è tornato a occuparsi di spread, Bce e Italia. Il quotidiano della City ci ricorda che la Bce, rispetto alle altre banche centrali, deve affrontare un compito più difficile. Le banche centrali oggi devono decidere se provare a ridurre l’inflazione, facendo rallentare un’economia che già scricchiola, oppure lasciarla correre. L’Europa ha un problema in più e cioè la frammentazione interna che prende la forma dello “spread”, il differenziale tra i costi del debito degli Stati membri. L’FT prevede che la Bce dovrà definitivamente dimostrare di voler impedire la frammentazione riducendo gli spread, dopo la crisi, quella dei debiti sovrani di dieci anni fa, che ha rischiato – sono le parole dell’FT – di distruggere l’euro. Il quotidiano, quindi, presume che i mercati testeranno la Bce e la sua “soglia del dolore”. 



È una previsione facile, perché lo spread Btp-Bund è già ai massimi dalla primavera 2020, quando l’Italia usciva da tre mesi di quarantena per Covid. Lo spread oggi è oltre 200, mentre a gennaio era a 130 e per buona parte del 2021 è stato vicino ai 100 punti. Gli investitori stanno già testando la Bce. I rendimenti delle obbligazioni statali dei Paesi sviluppati sono saliti perché le banche centrali hanno intrapreso politiche di rialzo dei tassi per contenere l’inflazione. Non è chiaro quanto questo possa durare, perché la recessione sembra stia arrivando prima e peggio di quanto si potesse pensare, dato che la rottura delle catene di fornitura globali e le sanzioni hanno un costo pesante per l’economia. I rendimenti delle obbligazioni statali non sono particolarmente appetibili perché offrono un guadagno nettamente inferiore all’inflazione. 



L’Europa è un’anomalia perché ha un’unica politica monetaria e una stessa valuta per Paesi che sono in condizioni economiche diverse. Non è solo una questione di debiti pubblici. La dipendenza della Francia dagli idrocarburi è nettamente inferiore a quella della Germania o dell’Italia grazie al nucleare. Le sanzioni hanno impatti diversi. Poi ci sono i diversi sistemi fiscali, produttivi e altre differenze che sarebbero impensabili, per esempio, tra Texas e Tennessee (due stati di una vera Federazione). Gli spread ampliano la frammentazione, dato che il costo del debito delle economie più fragili sale più di quelle forti. E il mercato interno non è una valvola di sfogo, anche perché in Germania si parla il tedesco e in Spagna lo spagnolo.



In uno scenario finanziario ed economico in peggioramento in cui già si fa esperienza della stagflazione e a breve della recessione, gli investitori faranno quello che hanno fatto dopo la crisi Lehman. Testeranno gli spread e metteranno con le spalle al muro la Bce e i Paesi membri che direttamente o indirettamente la supportano. La questione è assolutamente politica, come l’FT ha perfettamente chiaro. È un crocevia politico, non finanziario. La questione diventa: a che condizioni la Bce e il sistema europeo decidono o non decidono di chiudere gli spread e impedire la frammentazione? Una frammentazione economica che diventa politica.

Oggi gli italiani, come gli altri europei, stanno già subendo una patrimoniale. È la patrimoniale che si produce perché l’inflazione è vicina alla doppia cifra e il rendimento del decennale è fermo al 3%. Gli italiani perdono almeno il 5% dei risparmi ogni anno sotto forma di perdita del potere d’acquisto. Lo Stato ha un debito che rimane fisso che costa molto meno dell’inflazione ed entrate che sono parametrate all’inflazione. È già una patrimoniale a tutti gli effetti, sia dal punto di vista del costo per i cittadini, sia dal punto di vista del bilancio statale. 

In più, lo scenario economico internazionale non è quello del 2012; è infinitamente peggiore. Tutte le economie soffrono e i costi energetici sono impazziti. Qualsiasi patrimoniale, in una delle mille forme che può prendere, imposta in Italia in questa fase avrebbe effetti recessivi esponenzialmente più alti che nel 2012. Non risolverebbe niente dal punto di vista economico, né, soprattutto, risolverebbe il problema dell’Europa o dell’Unione Europea. È una misura che ha senso solo se lo Stato che ne è vittima si ristruttura. Ciò di cui ha bisogno l’Italia, la diminuzione della spesa pubblica improduttiva, è impossibile politicamente in questa fase, perché nessuno ha mai spiegato agli italiani che il problema non sono gli evasori, né la sanità, ma uno Stato che impiega male tantissime persone che ha a libro paga.

Qualsiasi ipotesi di extra-tassazione in questa fase sarebbe la prova provata che ci si muove in un orizzonte che è oltre l’Europa e oltre l’euro. Nessuno al mondo può pensare che distruggere il potere d’acquisto del 20% degli europei possa essere una soluzione per l’Italia o per l’Europa; tanto più in una situazione in cui la domanda interna dovrebbe essere salvaguardata a ogni costo. Non ci guadagna l’Italia, né l’Europa. Teoricamente esiste la possibilità di una riforma profonda del sistema italiano o dell’Europa, ma praticamente non c’è. Quindi l’unica prospettiva trascende la costruzione europea attuale e guarda oltre, a un approdo di competizione e frammentazione tra Stati membri. 

Potremmo concludere diversamente se il dibattito in Italia o in Europa non fosse quello che è. L’unità europea sarà testata ancora una volta sul portafoglio molto più che sui missili.

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