L’Italia è alla resa dei conti. Una resa che si sta già caratterizzando e si caratterizzerà attraverso molti aspetti. Sinteticamente possiamo individuarne i principali: il cambio di guardia politico che avrà il suo epilogo a settembre con l’elezione del nuovo Parlamento. Successivamente, altro interessante elemento ma di stampo strettamente economico, troviamo i diversi appuntamenti in agenda fino al termine di anno.



A corollario di tutto questo, e sotto un altro significativo profilo (quello finanziario), l’Italia appare prossima a vivere una perenne e costante ansia da prestazione quotidiana che trova l’immediata misura con il termometro del tanto agognato spread. Su quest’ultimo, in molti ritengono che il timore sia ormai archiviato grazie all’introduzione del neonato TPI (Transmission Protection Mechanism), ma, senza molti giri di parole, si sbagliano. 



L’introduzione di questo nuovo strumento posto nella cassetta degli attrezzi in dote alla Bce non è sinonimo di paracadute per tutti e a causa di tutto. Infatti, le regole che ne autorizzeranno l’impiego sono molto specifiche e soprattutto «discrezionali». Certamente la Governatrice Lagarde potrà contare su un ulteriore mezzo per «contrastare ingiustificate, disordinate dinamiche di mercato che mettono seriamente a repentaglio la trasmissione della politica monetaria in tutta l’area dell’euro», ma, al tempo stesso, i potenziali destinatari non potranno dare per scontato un “salvataggio garantito”. Ed ecco giungere la resa dei conti.



Nel corso di quest’ultima settimana l’Italia ha già pagato il suo conto: molto caro. Il citato “non problema spread” ha mutato la sua recente fisionomia e, in pochi giorni, dai precedenti 200 punti siamo arrivati agli attuali 238 con picchi prossimi ai 250 punti. Ovvio che le annunciate dimissioni del Premier Mario Draghi hanno impattato su questa intera dinamica (lettere A e B nel grafico), ma, prescindendo da questo, il differenziale nostrano ha continuato a persistere con il suo cammino in territorio negativo (incrementandosi) nelle successive ore nonostante l’intervento salvifico della Bce (lettera C nel grafico). 

Il ritrovato spettro dello spread ha iniziato a far emergere le proprie sembianze che, inevitabilmente, richiamano alla mente alcune parole del Premier Draghi: il debito buono e il debito cattivo. Proprio un anno fa, in occasione all’Adunanza solenne di chiusura dell’anno accademico dell’Accademia Nazionale dei Lincei, l’allora Primo ministro italiano ed ex Governatore della Bce richiamava nel suo intervento alcuni aspetti già affrontati nei mesi precedenti al suo insediamento: «Oggi è quindi giusto indebitarsi, ma questo non è sempre vero. Questo mi porta a una distinzione a cui avevo accennato qualche mese fa, tra quello che chiamo “debito buono” e quello che chiamo “debito cattivo”. Ciò che rende il debito buono, o cattivo, è l’uso che si fa delle risorse impiegate. Questa distinzione è particolarmente importante in una fase di transizione come quella attuale, in cui possono essere più marcate le differenze di produttività tra i progetti in cui è possibile investire. Il debito può rafforzarci, se ci permette di migliorare il benessere del nostro Paese, come è avvenuto durante la pandemia. Ci può rendere più fragili se, come troppo spesso è accaduto in passato, le risorse vengono sprecate. Il debito può unirci, se ci aiuta a raggiungere il nostro obiettivo di prosperità sostenibile, nel nostro Paese e in Europa. Ma il debito ci può anche dividere, se solleva lo spettro dell’azzardo morale e dei trasferimenti di bilancio, come successe dopo la crisi finanziaria». 

Soffermando l’attenzione sui singoli concetti possiamo ricavarne una sorta di sintesi gestionale del debito, ma, nulla togliendo all’importanza di questi significativi insegnamenti, vorremo proporre al lettore un esperimento: sostituire la parola “debito” con la parola “politica”. A seguito di tali modifiche, ciò che ne consegue, appare disarmante. Una “politica buona” oppure “cattiva”. Una “politica” che può rafforzarci, se ci permette di migliorare il benessere del nostro Paese, come è avvenuto durante la pandemia. Ci può rendere più fragili se, come troppo spesso è accaduto in passato, le risorse vengono sprecate. Una “politica” può unirci, se ci aiuta a raggiungere il nostro obiettivo di prosperità sostenibile, nel nostro Paese e in Europa. Ma la “politica” ci può anche dividere, se solleva lo spettro dell’azzardo morale e dei trasferimenti di bilancio, come successe dopo la crisi finanziaria. 

Con le dimissioni del Premier Draghi, l’Italia e gli italiani saranno costretti a pagare un conto salato con un prezzo riconducibile non solo allo spread, bensì alla politica. Quello di una “politica cattiva”.

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