Le rondini arrivano a primavera, Babbo Natale con il freddo (mai così atteso). Ma quando la politica si scalda è l’ora dello spread, sinonimo di emergenza della finanza pubblica del Bel Paese. Il fenomeno, puntuale, si è ripresentato alla vigilia delle elezioni, nemmeno troppo incerte ma comunque foriere di una stagione di grandi incertezze.



Anzi, stavolta non si è dovuto attendere l’esito delle urne. Standard & Poor’s, puntualmente ripreso dal Financial Times, ha anticipato che un eletto club di “bond vigilantes”, come si autodefiniscono gli speculatori sui mercati obbligazionari, ha già messo nel mirino i Btp. Alla grande roulette dei mercati sono stati postati 39 miliardi di euro, cifra in rapida ascesa, per puntare sulla crisi dei conti dell’azienda Italia a fronte dell’emergenza gas, ma ancor di più per l’incertezza del quadro politico dopo il voto. Non è una sorpresa. 



Non dimentichiamo che, ai primi scricchiolii del Governo dimissionario, lo stesso Draghi sottolineò di non esser Dio, ovvero di non poter da solo far da scudo alle incertezze sul futuro del Bel Paese. E la ferita dell’attacco patito dalla finanza pubblica, dopo la lettera della Bce firmata da Jean Claude Trichet (e da Draghi destinato a succedergli alla testa della Bce) continua a ossessionare Giulio Tremonti, ansioso di prendersi una rivincita su Draghi, che il fiscalista pavese (l’unico ad aver frequentato i tre partiti della coalizione di centrodestra) detesta più di Mario Monti, ormai inoffensivo. 



Ma perché questa scommessa? In realtà, al di là delle rassicurazioni di Giorgia Meloni, il centrodestra è assai più smaliziato e consapevole delle conseguenze delle goliardate anti-euro del 2018, che tanta parte ebbero nelle difficoltà di dialogo con Bruxelles. Non solo. La finanza pubblica si presenta all’appuntamento dopo un biennio impeccabile, con un forte recupero delle entrate fiscali. Non solo. Le banche, anello debole dieci an fa (ma anche nel 2018) sono oggi assai più solide così come, al netto dello tsunami energia che non risparmia nessuno, il “made in Italy” che viaggia a velocità ben più spedita di Francia e Germania. Non esiste, a ben vedere, alcuna giustificazione per gridare all’emergenza Italia. Ma alcuni dati strutturali rendono il Bel Paese comunque un preda ideale per chi vuol andare short su un debito pubblico. In particolare:

– Il 25% del debito Italia, parte del sistema che fa capo alla Banca centrale europea, è comunque in mano a gruppi internazionali.

– Le dimensioni del debito pubblico, il terzo al mondo dopo Usa e Giappone, fanno sì che le dimensioni del mercato giustifichino anche le manovre short, cioè gli acquisti allo scoperto della speculazione.

– A gettare benzina sul fuoco, da sempre, ci pensano le turbolenze della politica nostrana. Più chiacchiera che sostanza, perché l’Italia, anche nei momenti peggiori, ha fatto fronte ai suoi impegni sacrificando il fabbisogno finanziario a danno dell’economia e del reddito, come non hanno fatto, ad esempio i francesi gratificati da uno spread meno gravoso.

– L’Italia, pur così fragile, paga per paradosso il prezzo della sua solidità. I creditori vanno sul sicuro pensando alla forza del risparmio privato, alla qualità del tessuto manifatturiero e alle potenzialità del settore servizi. Insomma, l’Italia è un buon debitore, abbastanza malandato da pagare alti tassi di interesse, forte il giusto per farti dormire sonni tranquilli. 

Ma queste considerazioni “storiche” vanno oggi riviste. Nel 2011/12 l’Italia era sotto il tiro dell’austerità tedesca appoggiata dalla Francia di Sarkozy, ansiosa di recuperare i quattrini improvvidamente prestati alla Grecia dalle banche parigine. Chi non ricorda l’imbarazzante e vergognosa risata del Presidente francese e di Angela Merkel a Deauville contro il Premier italiano? O le pressioni verso Obama perché si unisse al coro? 

Oggi il quadro è ben diverso. Nessuno, nemmeno i sacerdoti dell’ortodossia della Bundesbank, può oggi pensare a ridimensionare il ruolo dell’Italia, preziosa cerniera della frontiera Sud, tassello essenziale di una qualsiasi politica estera della comunità. Il vero rischio per lo spread sta nell’ambiguità di posizioni politiche ondivaghe e poco credibili. La risposta, a differenza che nel 2011, non può che far capo a un atteggiamento autorevole in politica estera, nella consapevolezza che l’Italia sarà determinante nei futuri assetti dell’Europa. Nessuno, del resto, si sta preoccupando dei pessimi numeri della Turchia, comunque oggi Paese chiave per gli equilibri del Mediterraneo. Lo spread, insomma, non dipende da complotti politici, ma solo la politica può essere un antidoto alla nostra fragilità.

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