Negli ultimi giorni si è tornati a parlare dello spread, del rischio che continui a crescere senza che via sia un intervento calmierante da parte della Bce. Secondo Mario Monti, vi sono poche analogie con la situazione del 2011, soprattutto perché – ha spiegato il Senatore a vita in un’intervista al Corriere della Sera – “il nostro spread incorporava una grande parte non ‘fatta in casa’. Era il premio per il rischio-euro che, in quella situazione di crisi nell’eurozona, i mercati chiedevano a chiunque emettesse titoli in euro.



E in misura maggiore per i Paesi che avevano i debiti pubblici più elevati”. E oggi, “con uno spread tutto ‘fatto in casa’, e in assenza di crisi nell’eurozona, non siamo nelle condizioni più favorevoli per ‘pretendere’ che la Bce si allontani dalla rotta per favorire un Paese che si è messo da sé in questa situazione”.



Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, non è però d’accordo su questa disanima dell’ex premier, perché “è del tutto evidente che anche nello spread attuale ci sia una componente dovuta a eventi straordinari che non sono nelle mani dell’Italia, in particolare il grande cambiamento operato dalla Bce per cercare di contrastare l’inflazione”.

Monti ha anche evidenziato che in Italia “la condiscendenza europea sui disavanzi si è spesso tradotta in spesa corrente (bonus in primis) più che in investimenti pubblici”. Cosa ne pensa?



Si tratta di una dichiarazione smentita dai dati del Fondo monetario internazionale, secondo cui tra il 2004 e il 2013 la spesa corrente pubblica in Italia è diminuita dello 0,2%, mentre tra il 2014 e il 2023 è aumentata dello 0,1%. Tutto questo mentre nella media delle economie avanzate è cresciuta dell’1,3% tra il 2004 e il 2013 e dell’1,7% tra il 2014 e il 2023. La verità è che siamo il Paese in cui negli ultimi vent’anni la spesa corrente pubblica è arretrata, mentre altrove è aumentata.

L’ex premier si dice anche contrario a un nuovo scostamento di bilancio e approva la scelta del Governo di non farvi ricorso.

Di fatto sta dicendo che in un periodo post-Covid e di guerra, insieme alla politica monetaria restrittiva, andrebbe perseguita una politica fiscale altrettanto restrittiva. Mi chiedo in quale libro di economia il professor Monti possa trovare supporto a un’indicazione di questo genere. Sarebbe interessante chiedergli come pensa che si possa venire incontro alle estreme difficoltà sistemiche che il nostro Paese ha in questo momento.

Dall’intervista si deduce che consiglierebbe di fare le riforme.

Non so quale possa essere il provvedimento concreto che si cela dietro questa sorta di parola magica. Al di là di questo, però, le riforme danno frutto anche in 5-10 anni, mentre l’urgenza chiede interventi che diano risultati più rapidi.

E l’urgenza oggi è determinata da uno spread che sale.

Sale perché la Bce ha modificato drasticamente la sua politica monetaria e questo cambiamento incide in particolare sui Paesi a più alto debito che vengono percepiti come più rischiosi. A questo punto dobbiamo chiederci, però, se la Bce abbia fatto la mossa giusta.

E qual è la sua risposta?

Per una volta mi trovo d’accordo con il professor Giavazzi, secondo cui non c’era assolutamente bisogno di una politica monetaria restrittiva, perché in Europa non siamo nella stessa situazione degli Usa. 

In che senso?

Nel senso che oltreoceano l’inflazione è salita per motivi interni, a causa cioè della giusta decisione del presidente Biden di aumentare la spesa pubblica via deficit. In Europa, invece, l’inflazione è guidata da fattori assolutamente esterni, è dovuta all’andamento dei prezzi delle materie prime e quindi è destinata a essere temporanea e non permanente come negli Stati Uniti. Di fatto si sta mettendo a rischio la sostenibilità dell’Italia, e dunque dell’Europa, per una politica che non ha alcuna ragion d’essere. Detto questo, non va trascurato il fatto che Giavazzi, parlando in occasione del premio Giovannini, ci ha rivelato qualcosa di estremamente nuovo rispetto a come si è espresso negli ultimi 20 anni.

A che cosa si riferisce?

Giavazzi ha spiegato che per ridurre il debito pubblico su Pil non bisogna cercare di far calare il numeratore con l’austerità – prendiamo quindi atto che finalmente dopo tanti anni di battaglie si è convinto che non è questa la soluzione -, ma di far aumentare il denominatore. Per questo ritiene prioritario accelerare al massimo gli investimenti previsti dal Pnrr.

Lei è d’accordo?

Non si tratterebbe di investimenti aggiuntivi, quindi un’eventuale accelerazione avrebbe un effetto minimo rispetto alla gravità della situazione. Di fronte alle considerazioni di Giavazzi c’è da chiedersi perché il Governo non abbia deciso di aumentare molto di più gli investimenti pubblici, che sono stati ridotti al lumicino nell’ultimo decennio, incrementando il deficit. Come mai l’esecutivo riduce il deficit in maniera drastica nei prossimi tre anni? Come mai resiste a qualsiasi scostamento di bilancio? Se è vero che gli investimenti pubblici generano maggiore crescita, allora dovrebbe farne di più.

I partiti di Governo non sembrano però chiedere uno scostamento di bilancio per aumentare gli investimenti pubblici…

Se Draghi è così forte da poter evitare uno scostamento di bilancio, allora dovrebbe essere altrettanto forte da concederlo, purché serva per aumentare gli investimenti pubblici.

E perché non lo fa?

Perché non è assolutamente interessato a quella fascia della popolazione più debole che trarrebbe più benefici dagli investimenti pubblici. Quello a cui è di fatto implicitamente interessato è la stabilità dei conti pubblici tramite politiche di rientro austero che sono assolutamente coerenti con il pensiero del professor Giavazzi, che credo abbia una qualche potenzialità di ascolto presso il nostro presidente del Consiglio.

Di fatto, quindi, Draghi seguirebbe la politica austera che, come ha ricordato prima, viene oggi sconfessata da Giavazzi…

Assolutamente sì.

Sembra un atteggiamento bipolare…

Beh, è quello che il Governo ha tenuto sempre durante l’approvazione del Pnrr per cui con una mano si è fatto dare delle risorse e con l’altra ha promesso di ridurre il disavanzo primario. È lo stesso atteggiamento bipolare di tutta l’Europa che pensa di andare avanti unita rispetto alla guerra in Ucraina e disunita rispetto alla politica monetaria e a quella fiscale. Alla fine pagheremo questa prova provata delle nostre debolezze, perché i mercati stanno prendendo atto che questo è un continente oggettivamente rischioso perché disunito. Non esiste al mondo che ci sia un’unione monetaria in cui nei prezzi dei titoli di stato viene incorporata una probabilità così alta che un Paese abbandoni questo progetto.

Cosa intende dire?

Che dentro lo spread di un Paese c’è di fatto la probabilità che questo faccia default o lasci l’unione monetaria. Cosa inconcepibile negli Usa, dove infatti lo spread tra gli Stati è sempre zero. Se l’Europa non riesce a convincere i mercati che il suo progetto di unità è definitivo, evidentemente c’è qualcosa che non va: non siamo un’unione perché non si tiene conto del più debole e di chi è più in difficoltà; quindi, si mette a rischio il fatto che questo Paese rimanga nell’unione stessa.

In questi giorni si sta leggendo di un’iniziativa di Draghi per cercare, tramite la sponda di Macron, di ottenere il varo di fondi europei simili allo Sure, e anche di interventi anti-spread della Bce, che potrebbero essere sottoposti però a condizionalità. Cosa ne pensa?

Non possiamo andare avanti con piccole toppe. È evidente che il sistema è in sofferenza e che i mercati se ne accorgono. Immagini una barca che sta affondando perché costruita male, con legno non solido: si possono mettere anche delle toppe sui buchi che si formano nello scafo, ma prima o poi ne spunteranno altri. Va ripensata la costruzione della barca in modo che resista alle tempeste. Fuor di metafora, occorre una costituzione fiscale europea che dica chiaramente senza se e senza ma che in tempi di difficoltà si sosterranno sempre i più deboli. Al contempo, è ovvio, c’è bisogno che questi Paesi deboli capiscano le ragioni della loro difficoltà e vi facciano fronte. Quando mai, però, abbiamo sentito parlare questo Governo di spending review, di investimenti per la qualità nella Pa, ovvero quello che l’Europa ci chiede per potersi fidare a darci risorse?

Non sembrano, però, queste le riforme che l’Europa ci chiede: si parla di concorrenza, giustizia, catasto…

L’Europa l’ha detto chiaramente prima del Pnrr: uno dei problemi fondamentali del Paese è la capacità amministrativa. Che poi in Italia si sia fatto finta di non notarlo e ci si sia concentrati su altro e che l’Europa, per non mettere in difficoltà questo Governo, sulla base di un accordo politico, abbia fatto notare altre cose ci può benissimo stare, anche se tutto questo è dannoso per l’immagine del nostro Paese, che continua a essere percepito come una cicala, quando i dati, come abbiamo visto prima nel caso della spesa corrente pubblica, dicono altro.

(Lorenzo Torrisi)

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