Le vicissitudini politiche italiane degli ultimi giorni non hanno avuto particolari riflessi sull’andamento dello “spread”. Il decennale italiano non ha patito conseguenze nonostante la notizia delle dimissioni di Conte sia stata rilanciata dai maggiori media finanziari. L’Italia, ricordiamo, è il Paese occidentale che ha patito le più lunghe e dure restrizioni all’economia nel 2020 mentre viaggia su livelli di debito e deficit preoccupanti. L’analisi su questo andamento può interessare due possibili livelli.



Un primo livello è quello relativo alle convinzioni sugli sviluppi della crisi politica che gli investitori hanno maturato in questi giorni. Ieri, per esempio, in un commento pubblicato sul Financial Times si poteva leggere che “nuove elezioni sono considerate improbabili a causa della difficoltà di organizzarle durante la pandemia”. Un nuovo governo Conte o un governo di unità nazionale venivano considerati scenari decisamente più probabili. Rimane il fatto che si sia aperta una fase di incertezza e che nuove elezioni, per quanto improbabili, non si possono escludere; nel 2021 diversi Paesi europei andranno al voto.



C’è una seconda possibile analisi. Ieri l’agenzia di rating Fitch spiegava che “se l’Italia dovesse fallire nell’uso delle risorse europee per rilanciare la crescita nel medio termine, questo potrebbe mettere pressione al ribasso sul rating sovrano”. In sostanza, per Fitch tutta la questione della crisi “italiana” e dei suoi impatti sul debito si giocano sull’asse dei “fondi europei” o, potremmo parafrasare noi, sull’asse del suo rapporto con l’Europa. 

La crisi da Covid ha enormemente rafforzato il “vincolo esterno” dell’Europa sull’Italia sia perché nel 2020 il debito emesso è stato coperto dalla Bce e non da istituzioni o soggetti italiani, sia perché la sottoscrizione di Mes e Recovery fund impone delle condizionalità molto precise e “forti”. Per qualcuno questo vincolo è estremamente positivo perché obbliga l’Italia a un atteggiamento responsabile o a certe riforme indipendentemente da quello che potrebbe succedere dopo un’elezione; per altri questo vincolo è nefasto perché rimane nelle mani di nostri concorrenti più che di un super-Stato europeo e perché le politiche economiche dell’Unione si sono dimostrate negli anni tutt’altro che perfette.



Qualsiasi cosa si pensi è certo che le leve sull’economia italiana, dopo il 2020, siano ormai definitivamente e stabilmente fuori dall’Italia e al riparo da qualsiasi cosa possa succedere nelle urne e alla fine da qualsiasi cosa possano decidere parlamenti o governi italiani. Questo è un fatto pacifico. In questo senso la capacità di ribellione di un ipotetico governo irresponsabile o sovranista italiano oggi è una frazione di quella che sarebbe stata nel 2018 quando pure per tre mesi lo spread segnalava tensioni sull’asse Roma-Bruxelles pur in presenza di un deficit ai minimi di sempre.

Lo scenario di un governo effettivamente “ribelle” oggi è quindi estremamente remoto perché l’Italia non è più indebitata nei confronti dei suoi cittadini o delle sue banche, ma “dell’Europa” e perché il peso politico dell’Italia dopo 30 anni di integrazione europea è ai minimi di sempre. A parte ribellioni oggi impossibili da prevedere il destino dell’Italia oggi è nelle mani dell’Europa e legato indissolubilmente al successo o all’insuccesso delle sue politiche. Se questo sia positivo o meno per ora non importa. Oltretutto sul tema ormai si assiste a un dibattito che difficilmente esce dai canoni della propaganda. Inevitabilmente a queste latitudini in senso pro-europeo. Basta osservare come venga narrato il rapporto, sempre più difficile, con il Regno Unito. Pensiamo solo che fino a qualche mese fa si poteva leggere sulla stampa italiana ed europea che la Brexit avrebbe messo in difficoltà il piano di vaccinazione inglese. 

Specifichiamo questo solo perché non ci siano illusioni su quale sia il contesto della narrazione. L’europeismo senza se e ma a questo punto è forse inevitabile, ma è sempre meglio mantenere un minimo di distacco e qualche accortezza. Quanto meno per evitare l’errore di pensare che il mondo inizi e finisca con i confini dell’Unione europea.