Abbiamo ragionato su questa possibile fusione alcuni giorni dopo l’annuncio del 17 febbraio scorso da parte di Intesa di lanciare una Ops su Ubi. Un’operazione di crescita, l’Ops diventata poi Opas ha raggiunto l’obiettivo. Dopo una prima levata di scudi da parte degli azionisti di Ubi alla fine hanno vinto i soldi, i tanti soldi messi sul piatto, il rilancio e il ritocco dell’offerta nel momento di maggior difficoltà e così i grandi azionisti, le Fondazioni, i patti di sindacato di Ubi hanno consegnato le loro quote arrivando a un’adesione che ha superato il 90% del capitale.



Un successo di Intesa e del suo Ad Carlo Messina che ha voluto fortemente questa operazione. Il risultato è importante, non lascia spazio a interpretazioni, evita il rischio di ingovernabilità che si sarebbe manifestato con un’adesione tra la metà e i due terzi del capitale, i due coefficienti che determinano gli esiti di assemblee ordinarie o straordinarie se dedicate a mutamenti statutari. Va a delinearsi e realizzare una banca di assoluto valore e dimensione nazionale, seppur senza una compiuta diffusione europea. Una banca fortemente dedicata al retail, rilevante per capacità di erogazione del credito e posizionamento nella gestione del risparmio in un’area delle più interessanti del Paese. Una banca che si assume e avrà un compito gravoso nel supportare, finanziare la ripartenza dell’economia post-Covid nei prossimi anni.



In questi mesi il solo Gruppo Intesa ha erogato al settore 2,6 miliardi di credito e a quattro mesi dall’introduzione della moratoria sui finanziamenti sono state già oltre 23mila imprese clienti che vi hanno aderito, con un ammontare del debito residuo che supera i 3,6 miliardi di euro. Servono aziende di credito adatte al ruolo, idonee all’erogazione di prestiti, capaci e presenti nel corporate banking per affrontare le condizioni conseguenti alla crisi in atto.

L’operazione Intesa Ubi può quindi procedere con il relativo piano di integrazione e vendita. Nei primi giorni di ottobre sono stati resi noti i risultati definitivi della procedura congiunta chiusa il 29 settembre per esercitare il diritto di acquisto delle azioni Ubi ancora in circolazione e il 5 ottobre è stato il giorno del delisting, con la revoca della quotazione e il titolo bancario Ubi che ha lasciato il listino di Piazza Affari.



Sempre il 5 ottobre è iniziata l’operazione di aumento di capitale da 802 milioni di euro con cui Bper, acquisendo 532 sportelli da Intesa, diventerà il terzo polo creditizio nazionale. Un aumento di capitale non per coprire buchi di bilancio, ma per finanziare la crescita.

Intanto si è concretizzato anche un primo accordo sindacale per l’avvio dell’integrazione di Ubi Banca e gestire le uscite. Tutte volontarie, saranno 5mila scaglionate dal 2021 al 2023 attraverso il Fondo di solidarietà, Quota 100 e Opzione Donna e al tempo stesso un parziale ricambio generazionale attraverso 2.500 nuove assunzioni entro il 2023. Un accordo che definisce il perimetro occupazionale del gruppo a partire dagli attuali 61.172 lavoratori di Intesa e i 19.609 di Ubi.

Un’operazione analoga a quella di Intesa Ubi si realizzerà in Spagna tra Caixa Bank e Bankia che farà nascere una realtà leader nazionale del credito iberico con una quota di mercato interno di circa il 25% dei depositi e prestiti. Si potrebbe pensare che il sistema bancario europeo voglia privilegiare una filosofia che porta a grandi realtà nazionali. E in Italia cosa può succedere ancora?

Con l’operazione Intesa Ubi il settore non risolve le sue difficoltà, non è questo un punto di arrivo, quanto piuttosto una base di partenza per ulteriori cambiamenti, in uno scenario delineato anche dall’emergenza Covid.

Quale sarà la prossima mossa del risiko bancario nazionale? Vanno considerati diversi fattori: la dimensione, la capitalizzazione di Borsa, la solidità dei Gruppi. I Gruppi e le varie banche si trovano in condizioni molto diverse fra di loro. UniCredit è alle prese con il piano Transform 2023 e sembra chiamarsi fuori dalle diverse possibili aggregazioni (da Mps in primis con secche smentite anche se la prossima nomina alla presidenza di Padoan potrebbe riaprire la partita). Sì, perché Mps sembra essere il perno di ogni ipotesi. Il Governo che ha investito sei miliardi euro per il salvataggio e ne controlla il 68%; si è impegnato con l’Ue a uscire dall’azionariato entro il 2021, a meno che venga chiesta una proroga di due anni. Il Mef sta spingendo per accelerare i tempi della cessione. Sul caso Mps si è ora anche abbattuta la pesante condanna del Tribunale di Milano per Profumo e Viola (rispettivamente ex Presidente e Ad di Mps) per aggiotaggio e false comunicazioni, sentenza che inciderà sul piano finanziario della banca.

Altre banche oltre a Mps sono in crisi strutturale con azionariato provvisorio (vedi Pop. Bari), altre escono da crisi precedenti, altre ancora come Bper crescono a seguito di decisioni Antitrust (vedi Intesa-Ubi). Il mondo cooperativo con Iccrea e CCB merita un discorso a parte, dopo un’ipotesi di riforma avviata dal Governo Renzi, le BCC sono rimaste a lungo nell’ombra, ma ora la situazione potrebbe cambiare ancora.

Le banche straniere meritano un discorso a parte con soluzioni e prospettive ciascuna diversa dall’altra: Deutsche Bank, Credit Agricole, Bnp/Paribas Bnl con queste ultime due ben posizionate e già presenti sul nostro territorio.

Per alcune popolari e banche minori si discutono operazioni guidate con la supervisione di Bankitalia. E così si va avanti… Le partite aperte nel settore del credito meritano una più approfondita disanima ed esposizione che rinviamo a un prossimo articolo.

Il contesto macroeconomico non è dei migliori. Il Covid fa paura. L’incertezza del quadro economico e politico rende difficile definire e realizzare piani industriali adeguati alle esigenze e condizioni di mercato. A ciò si aggiunge l’applicazione delle direttive CRD/CRR, BRRD, IAS/FRS e quella sugli NPL. Occorrono da parte degli attori in gioco scelte forti e una strategia adeguata alle tante difficoltà e criticità in essere.