Inizio anno nuovo, l’usanza vuole che si traccino bilanci e prospettive. Se prendiamo il tema delle banche, intese come un pezzo molto importante della vita economica del Paese, l’anno si è chiuso in modo rumoroso e per certi versi polveroso. Perché l’ultima storia, quella della Popolare di Bari, forse proprio perché ha fin troppe caratteristiche di un “già visto”, ha riacceso gli animi e rattizzato la brace di un camino mai spento. In questo senso forse un altro anno sprecato. Perché quanto alla capacità di fare chiarezza, di spiegare le proporzioni e la portata dei problemi nel sistema nel suo complesso, le lacune sono ancora amplissime ed è pure difficile capire chi è maggiormente in difetto. Forse tutti. Tutti quelli che avrebbero interesse a raccontare come le cose stanno e a fare lo sforzo di comporre insieme la critica, l’autocritica con la spiegazione dei molti sforzi fatti.



In questo senso due belle interviste di questi giorni ad Antonio Patuelli, Presidente dell’Abi, evidenziano un bell’atteggiamento. L’ex deputato liberale della Prima Repubblica, forse anche perché è vicino alla conclusione del mandato (a meno che una recentissima modifica dello Statuto dell’Abi gli consenta un quarto mandato biennale), ha parlato in modo schietto e chiaro. Ha ricordato che i recenti interventi del Fondo interbancario di tutela dei depositi nei casi di Bari e Genova sono interventi non a fondo perduto, perché il Fitd acquisisce azioni dei due gruppi e partecipa, in qualche modo, al lavoro per un rilancio industriale. Ha ricordato che siamo il Paese che ha preso più sul serio l’invito dell'”Europa” ai consolidamenti bancari. Il che è vero. Basterebbe ricordare che attorno al 2010 l’Abi aveva circa 760 iscritti (banche, intermediari finanziari di un certo tipo e associazioni fra questi) mentre oggi sono poco più di 500. Ha sintetizzato in vario modo lo stato di salute del mercato bancario italiano, che – questo potremmo osservare – comincia effettivamente ad avere la sembianza di un mercato, nel miglior senso della parola. Con proposte diverse, concorrenza di idee, obbiettivi e dialettica di mercato in cui le proposte stimolano la consapevolezza dei bisogni, in un meccanismo virtuoso in cui appunto domanda e offerta costruiscono insieme un’idea di crescita. Il grande tema del mercato assicurativo, che incontra quello dell’allocazione del risparmio e della stessa sostenibilità del sistema di welfare ne è solo un esempio.



In questo senso perciò la schiettezza con cui Patuelli ha invocato l’abolizione del famoso bail in, ancorché del tutto legittima, stride con quell’atteggiamento. Il bail in significa che una banca che agisce male deve leccarsi le ferite da sola. Tradotto vuol dire che il costo del fallimento è a carico degli azionisti e di diversi altri gruppi di creditori, a scendere fino ai correntisti oltre i 100.000 euro. La realtà ha dimostrato che poiché non parliamo di un’azienda qualunque, le conseguenze di un fallimento possono costare (e costerebbero) alla collettività, molto di più di un intervento di aiuto in senso lato. Il problema allora è quello di non fallire! Continuare a girare attorno agli “effetti morali” dell’esistenza di questa regola è uno spreco di energia. Gli sforzi, le risorse, vanno concentrate attorno alla costruzione di una platea di giocatori che abbiano nell’evitare il default, un’arteria essenziale. La qual cosa è già così.



Se tiriamo le somme delle crisi bancarie vissute negli ultimi 5 anni, a paragone dell’entità della crisi globale ed europea, dei problemi e della fisionomia stessa del sistema produttivo e del Paese nel suo complesso, il risultato non può che dirsi soddisfacente. Le stime raccontano di un sistema produttivo che dal 2008 ha perso circa il 25% della sua capacità, recuperata finora solo in parte. La realtà racconta di un mondo liquido che cambia velocissimo. A tutti i livelli. Questi sono i temi. Le banche sono arrivate sin qui sotto la tempesta di norme, leggi, regolamenti, pressioni e strattonamenti come pochi altri settori produttivi e sono persino riuscite a concepire le proprie iniziali idee di futuro.

Di questo settore nel 2020 si dovrebbe parlare molto meno. Salvo solo concentrarsi sulla specificità di aziende private che però si intrecciano con meccanismi e con interessi che hanno da una parte altissimo valore costituzionale, dall’altra un delicatissimo ruolo di sistema. In una qualunque azienda privata il capo o il padrone può fare quello che vuole. Una banca, per il momento, no. Perché una mossa sbagliata trascina dietro il Paese. Con questa chiave la prevista ipotetica Commissione parlamentare potrebbe dare una mano. Accertiamo se il modello esistente e la realtà concreta consentono – al momento – un punto di equilibrio utile e sostenibile per queste particolarissime aziende in questo particolarissimo momento. Rileggiamo in questa chiave le storie accadute, per lo stretto indispensabile. Verifichiamo se i casi accaduti hanno insegnato qualcosa oppure no. Ma fatto questo, concentriamoci sul resto.

La Corte dei Conti ha appena ufficializzato il proprio allarme sulla prospettiva di crescita del Paese. Senza crescita, il sistema bancario perfetto non serve. Perciò per il futuro – e per quanto scandaloso possa sembrare, anche per molti eventi del passato – bisogna tentare uno sguardo che accetti di considerare che i problemi e le sfide della banca si giocano non dentro, ma fuori di essa.