L’Italia continua a crescere nonostante la frenata di inizio anno e una serie di condizioni esterne negative, a cominciare dalla crisi di Suez che non solo aumenta i costi dei trasporti, ma rende più difficili gli approvvigionamenti. L’ultima nota del Centro studi Confindustria pubblicata ieri fotografa il rallentamento, ma spiega che “l’economia italiana è sostenuta da inflazione bassa, fiducia delle famiglie in aumento e servizi in crescita, mentre l’industria sembra stabilizzarsi”. Fare previsioni accurate è difficile e gli aggiornamenti sono continui. L’Istat ha certificato che il Pil del 2023 è aumentato dello 0,9% soltanto, ma più della media europea. Una parte tutt’altro che trascurabile di questa crescita è dovuta alla Cassa depositi e prestiti, anche se non viene riconosciuto abbastanza.
Quando si parla della Cdp come della “nuova Iri” o del braccio armato per l’intervento dello Stato nell’economia, si dimentica sempre di fare i conti con il suo impatto macroeconomico. Secondo le stime ufficiali, nel 2002 e nella prima metà dello scorso anno (il bilancio dell’intero 2023 sarà presentato solo alla prossima assemblea) la Cassa depositi e prestiti ha generato un valore aggiunto in rapporto al Pil pari all’1,5%, contribuendo alla creazione o al mantenimento di 410.000 posti di lavoro, il 40% a favore di donne e il 23% a favore di giovani. La presenza sul territorio nazionale è capillare: due italiani su tre vivono in Comuni finanziati da interventi di Cdp; circa 50.000 sono le imprese servite, con un’attenzione particolare a quelle impegnate nell’ambito della transizione verde e digitale.
È, insomma, uno strumento importante per la tenuta del Paese. Ma è uno strumento delicato che occorre maneggiare con cura. Attenti a non snaturare la Cassa. Con il suo attivo di 469 miliardi di euro e un utile di circa due miliardi, gli appetiti non mancano. Molte sono le pressioni politiche e sociali affinché intervenga a difesa di aziende in crisi o per veri e propri salvataggi. Il suo mandato, invece, è chiaro: impiegare le risorse in imprese sostenibili con chiare prospettive di generare utili. Può intervenire in aziende solo se sono in difficoltà temporanee, ma hanno solidi fondamentali. Il piano del 2022 ha individuato come priorità le infrastrutture e le reti, dieci filiere legate alla transizione, società da far crescere in un Paese dove il mercato dei capitali resta piccolo e asfittico, grandi imprese da sostenere per aumentare l’autonomia strategica.
Con le cugine d’oltralpe, la Cdc francese e la Kfw tedesca, condivide molte funzioni, ma con una differenza di fondo: la Cdp si alimenta soprattutto con risparmio privato, quello dei libretti postali. La Cdc viene finanziata direttamente dal Tesoro e la KfW emette bond sul mercato dei capitali. La prima è direttamente un’agenzia del Governo, l’altra mantiene una autonomia gestionale anche se il vertice è di nomina politica. La riforma Tremonti del 2003 ha trasformato la Cassa in società per azioni facendo entrare le fondazioni di origine bancaria, ciò ha consentito di ridurre di circa 400 miliardi il debito pubblico e ha collocato al di fuori del perimetro pubblico quella che la Bce ha definito istituzione finanziaria monetaria. Ogni tentativo di usarla per fini politici o per salvataggi pubblici entra in contraddizione con la sua natura e la sua funzione.
È vero, tuttavia, che la Cassa direttamente o attraverso la sua holding di partecipazioni, Cdp Equity, possiede quote azionarie diverse, ma di controllo, un’ampia fetta dell’industria e della borsa italiana: Fincantieri, Autostrade, Ansaldo energia, Webuild, Open Fiber, Trevi, Hotelturist, il Polo strategico nazionale, solo per citare le principali. Terna, Snam, Italgas sono inquadrate nella società delle reti dove la cinese State Grid ha il 35% e alla capogruppo fanno capo l’Eni con il 26% e le Poste con il 35%. Senza contare l’enorme patrimonio immobiliare.
I dossier ancora aperti riguardano il rilancio di Saipem, il risanamento dell’Ansaldo Energia, di Valvitalia e della Trevi costruzioni. Ma soprattutto c’è la sistemazione di Open Fiber (controllata al 51%) che continua a posare cavi a fibra ottica senza avere clienti a sufficienza, mentre il crollo in borsa di Tim, della quale la Cdp è secondo azionista con il 9,8% dopo Vivendi, rischia di complicare l’intero scorporo della rete che dovrebbe andare al fondo americano Kkr. Sulla scrivania dell’ad Dario Scannapieco e di Fabio Barchiesi, direttore sviluppo e business di Cdp Equity, ci sono anche altre grosse questioni, si pensi alle autostrade: tra manutenzione e ammodernamento ci vogliono per tutti i concessionari 80 miliardi nei prossimi anni, tra 15 e 20 di competenza di Aspi. Come se non bastasse aumenta la pressione per intervenire nell’Ilva, sia il Governo che i sindacati vorrebbero che entrasse in Stellantis per controbilanciare i francesi, l’amministratore delegato Francesco Milleri ha suggerito un ingresso in EssilorLuxottica dove lo Stato francese ha una piccola partecipazione. Troppo anche per chi ha le spalle larghe come la Cassa, e troppo pericoloso. Guai a infrangere il delicato equilibrio costruito vent’anni fa.
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