L’azione repressiva del regime cinese si adegua ai cambiamenti imposti dalla realtà. Il vicecapo delle forze di polizia nello Xinjiang, il generale Peng Jingtang, è stato nominato dal presidente Xi Jinping comandante della guarnigione dell’Esercito di liberazione di stanza a Hong Kong. Secondo Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, “si tratta di riposizionamenti dovuti al fatto che nello Xinjiang ormai la repressione ha avuto il suo effetto, ha cioè spezzato ogni tentativo di ribellione e di opposizione. A Hong Kong invece, ma anche in altri territori, la repressione è ancora in fase iniziale, dunque personaggi esperti nel reprimere ogni opposizione come Jingtang vengono mandati sul posto”.
Cambio al vertice delle autorità militari con l’arrivo dallo Xinjiang a Hong Kong dell’ex vice capo della polizia, il generale Peng Jingtang. A cosa si deve, secondo lei, questa nomina? Una minaccia? Una provocazione?
Bisogna partire dalla situazione nello Xinjiang. Proprio una settimana fa il segretario del Partito comunista locale, uno dei personaggi più impopolari della Cina, anche sanzionato da Stati Uniti e Unione Europea, è stato richiamato a Pechino. Una mossa difficile da interpretare.
Cosa potrebbe significare?
Un motivo potrebbe essere legato al fatto che, accumulandosi i dossier sulla sua partecipazione personale alla repressione, fosse divenuto ormai un peso per la propaganda cinese a livello internazionale. Al suo posto è stato nominato uno scienziato che si è occupato del programma astronautico cinese. Un personaggio che sui giornali cinesi mai tradotti in lingua occidentale ha dichiarato che farà esattamente quello che faceva il suo predecessore, ma chiaramente dal punto di vista dell’immagine si passa da uno che aveva la faccia da burocrate stalinista a uno scienziato noto anche nel mondo scientifico internazionale.
Altre motivazioni?
Un’altra interpretazione, e questa potrebbe essere confermata dallo spostamento a Hong Kong del generale Jingtang, è che Xi Jinping sia convinto che ormai la battaglia nello Xinjiang sia stata vinta. Ormai tutti gli oppositori che si potevano mettere in galera sono stati incarcerati. Noi sul nostro sito abbiamo pubblicato una corrispondenza dal Kazakistan dove si vede uno dei nostri giornalisti che è stato massacrato dalla polizia senza aver preso parte alle manifestazioni di protesta. Inoltre, approfittando del caos, agenti cinesi hanno riportato in Cina almeno cento richiedenti asilo che erano scappati dallo Xinjiang.
Quindi lo Xinjiang è stato messo, per così dire, in silenzio?
Sono piccoli aggiustamenti che fanno pensare come nello Xinjiang la repressione abbia fatto il suo corso. Quindi il personale più spietato viene riposizionato in zone dove la repressione è ancora agli inizi, come a Hong Kong, Tibet e Mongolia interna.
Tornando a Hong Kong, ci saranno reazioni popolari a questa nomina?
Le reazioni popolari ormai sono impossibili, non è immaginabile che si organizzino manifestazioni di massa: ai primi passi la polizia arresta tutti. Ormai l’unica reazione che resta ai giovani di Hong Kong è scappare: sono decine di migliaia quelli che chiedono asilo politico nel Regno Unito. L’epoca delle proteste in piazza è finita, adesso comincia quella che diventerà sempre più difficile, la fuga. Anche il Covid rende tutto più complicato, visto l’aumento dei controlli negli aeroporti.
Stati Uniti ed Europa continuano a guardare in silenzio?
Protestano, sono proteste che hanno qualche piccolo effetto, meglio di niente. Ad esempio, il divieto americano di importare qualunque prodotto dallo Xinjiang qualche danno all’economia cinese indubbiamente lo arreca, ma certo non fa cambiare idea al regime. In Kazakistan la repressione ha fatto molti più morti di quanto si legga sui giornali. Questa è la situazione di un potere repressivo, quello di Pechino, che non conosce ostacoli né frontiere.
(Paolo Vites)
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