Le debolezze dell’economia cinese sembrano, ormai, sotto gli occhi di tutti. Al rischio di una crisi in stile subprime caratterizzata da banche in sofferenza, eccesso di liquidità e il pericolo concreto di una bolla immobiliare, si aggiunge quello che, a nostro avviso, rappresenta il dato più significativo.

In base ai calcoli di Bloomberg, per la prima volta in due anni i maggiori fondi di investimento globali hanno tagliato di 16,5 miliardi di yuan la loro quota di debito pubblico cinese. Anche se mantengono ancora una fetta consistente di China Government Bonds pari a 2,04 trilioni di yuan, che equivalgono a 312 miliardi di dollari Usa, c’è da chiedersi se questo taglio rappresenta un dato strutturale o il frutto di una manifesta incertezza circa le fondamenta dell’economia cinese.



Un taglio netto che rappresenta una situazione abbastanza inusuale, soprattutto se messo in relazione alla grande attrattività che hanno mantenuto i titoli di Stato cinesi durante la pandemia e che va connessa all’incremento di debito messo sul mercato dalle istituzioni finanziare cinesi e dall’interesse crescente degli investitori per i titoli di Stato europei, italiani su tutti.



Un dato che si può prestare a diverse interpretazioni, ma che al momento testimonia una riduzione di fiducia verso l’economia cinese, che però per gli analisti che continuano a scommettere su di essa, continuerà ad avvalersi del colossale surplus commerciale che dovrebbe sostenere lo yuan a discapito del dollaro.

Molto probabilmente il ripensamento degli investitori circa la solidità dei buoni del Tesoro cinese va ascritto a una generalizzata sfiducia nei confronti dei bond che ha avuto in Warren Buffett la voce più autorevole. Un atteggiamento che grosso modo si può tradurre in un allontanamento da posizioni a “reddito fisso” per privilegiare situazioni più volatili. Una prospettiva che potrebbe porre sotto una luce diversa il ritrovato interesse verso i titoli di Stato italiani.



Ad ogni modo l’aumento del 22% dei non performing debt registrato lo scorso anno dalle maggiori quattro banche cinesi, che sembra destinato a crescere nel corso del 2021, è sicuramente un dato su cui riflettere. Se è vero che nel complesso le quattro maggiori banche hanno aumentato i loro profitti e che l’economia cinese ha mostrato una notevole resilienza durante la pandemia, le piccole e medie imprese sembrano decisamente in difficoltà e sempre più indebitate. Difficoltà che si riverberano sulle piccole banche commerciali e rurali, che sono quelle più vicine alle famiglie, le quali alle prese con la pandemia iniziano a ridurre i propri consumi.

Avevamo già paventato la possibilità che le criticità mostrate dall’economia cinese fossero in realtà dovute a un rallentamento guidato della crescita, che in epoca pre-pandemica cresceva a ritmi insostenibili. Uno scenario in cui una crescita a tassi superiori al 7% avrebbe comportato un ulteriore aumento del debito privato.

In definitiva il governo cinese avrebbe da tempo intuito i limiti della sua espansione capitalistica e starebbe avviando una ristrutturazione in senso domestico della propria economia, a cui corrisponde un’ulteriore stretta del Partito comunista sul controllo delle maggiori imprese, tecnologiche in primis. Di certo una situazione complessa dagli esiti al momento imprevedibili, ma che ha delle evidenti implicazioni geopolitiche.

Lasciando sullo sfondo l’ascesa dello yuan, che inizia a mostrare le prime ed evidenti crepe, la questione del debito cinese ci sembra connessa a quella della “trappola del debito” che tiene avvinti diversi paesi in via di sviluppo al destino del Dragone. Secondo i calcoli dell’Università di Boston, dal 2008 al 2019 la Cina ha finanziato le economie di paesi in via di sviluppo ed emergenti per un ammontare di quasi 500 miliardi di dollari, contendendo alla Banca Mondiale la funzione di maggiore creditore al mondo. L’opinione di chi scrive è che la Cina abbia già superato in questa particolare classifica la Banca Mondiale, ma che l’abbia fatto in modo decisamente meno trasparente.

Nessuno al momento conosce il reale ammontare dei prestiti e la natura delle clausole imposte dalla Cina ai beneficiari dei contratti. Una posizione che si è palesata il 7 aprile scorso, quando i ministri delle Finanze e i rappresentati delle banche centrali dei paesi del G-20 hanno discusso circa la riduzione del debito dei paesi a basso reddito che si trovano alle prese con le conseguenze sociali ed economiche della pandemia in atto. L’accusa mossa a Pechino di aver bloccato i piani di ristrutturazione del debito di questi paesi e le conseguenti resistenze cinesi palesano il vero valore della partita in atto. Oltre ad aver ceduto il controllo di infrastrutture strategiche e fette consistenti della loro sovranità, i paesi legati a Pechino potrebbero rappresentare i sistemi economici su cui l’economia cinese potrebbe scaricare i propri problemi. Insomma, i paesi ai quali rimarrebbe in mano il cerino del debito.

A quanto pare Pechino ha studiato bene la crisi del 2008 e la conseguente crisi del debito sovrano dei paesi Pigs e sembra aver già individuato chi dovrà interpretare in commedia la parte della Grecia.

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