Il Congresso nazionale del popolo (NPC) a Pechino, tenutosi a marzo 2024, ha messo in evidenza la crescente tensione tra le esigenze economiche interne della Cina e le sue relazioni commerciali internazionali. L’economia cinese, che per decenni ha goduto di una robusta crescita, negli ultimi anni ha mostrato segni di stallo. La contrazione del settore immobiliare e le politiche di contenimento del Covid-19 hanno avuto un impatto significativo, riducendo gli investimenti privati e rallentando la crescita economica. Tuttavia, le cause di questa situazione sono profondamente radicate in problemi strutturali che vanno oltre le immediate difficoltà economiche.
Tra il 2010 e il 2019, la Cina ha registrato una crescita media annuale del Pil del 7,7%, un tasso invidiabile a livello globale. Oggi, però, il Paese si trova di fronte alla sfida di mantenere una crescita economica anche solo del 3-4%, a causa della necessità di riforme strutturali significative che sembrano essere al di fuori della portata immediata del governo cinese. Durante l’NPC, molti osservatori interni ed esterni speravano di cogliere segnali di un cambiamento nelle politiche economiche della Cina, soprattutto in risposta a un surplus commerciale che si è esteso per oltre due decenni. Invece, la Cina ha mostrato un surplus commerciale ancora più elevato nei due anni precedenti, con le esportazioni che hanno superato le importazioni per 1,7 trilioni di dollari. Questo surplus è stato in parte attribuito a un calo della domanda interna, un problema che va affrontato per realizzare la transizione verso una crescita guidata dai consumi interni, come auspicato dal presidente Xi Jinping.
Nonostante le aspettative, le politiche annunciate durante l’NPC non hanno segnalato un imminente cambio di direzione. Al contrario, sembrano rafforzare la dipendenza della Cina dalle esportazioni e dagli investimenti esteri, piuttosto che promuovere la domanda interna e i consumi. Questo approccio rischia di intensificare ulteriormente i conflitti commerciali con le economie avanzate, che vedono le esportazioni a basso costo della Cina come una minaccia alla loro produzione interna e all’occupazione.
La situazione commerciale attuale non è unica nella storia economica globale. Analogamente, negli anni 70 e 80, il Giappone affrontò critiche da parte delle economie avanzate per i suoi squilibri commerciali. Tuttavia, attraverso negoziati diretti, soprattutto con gli Stati Uniti, e intese come l’Accordo Plaza e l’Accordo Louvre, il Giappone fu in grado di apportare modifiche significative alle sue politiche economiche. Questi cambiamenti non solo ridussero gli squilibri commerciali, ma contribuirono anche a stabilire una fiducia nella globalizzazione che avrebbe avuto benefici a lungo termine per molte economie, compresa quella cinese.
Oggi, la questione è se la Cina sarà disposta a intraprendere un percorso simile, modificando le sue politiche per ridurre il surplus commerciale e promuovere una crescita più sostenibile basata sulla domanda interna. Finora, le indicazioni dall’NPC suggeriscono il contrario, con la Cina che appare ancorata a un modello di sviluppo guidato dalle esportazioni e dagli investimenti, senza segni evidenti di un’imminente transizione verso una maggiore equità interna e sostenibilità economica. In assenza di riforme strutturali, la tensione commerciale tra la Cina e il resto del mondo è destinata ad aumentare, con possibili ripercussioni negative non solo per l’economia globale, ma anche per il processo stesso di globalizzazione.
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