Sottovalutare il ruolo del sea power per quanto riguarda la politica estera cinese costituisce un errore strategico di enorme portata. Non è un caso se i congressi del Partito comunista cinese sottolineano il ruolo strategico del mare come strumento di proiezione del potere. Il 18esimo Congresso nel 2012 sottolineava come la costruzione di un forte potere marittimo fosse in cima all’agenda politica del governo cinese.
eroIl 19esimo Congresso del 2017 ha aperto l’idea che le politiche marittime fossero parte integrante delle ambizioni cinesi per il mondo. Allo stesso modo, la recente teoria di “Near Seas” e “Distant Seas” considera lo spazio marittimo come uno strumento fondamentale per orientare le scelte politiche.
Proprio per questa ragione è importante sottolineare il ruolo che la Cina intende avere nel contesto del Mediterraneo. Comprendere il modus operandi della Cina nei porti euromediterranei richiede innanzitutto l’adozione di una visione globale dei fenomeni, sia nel tempo che nello spazio.
Alla fine degli anni 70, Deng Xiaoping salì al potere e riformò economicamente il paese trasformando la Repubblica popolare cinese (Rpc) in una grande potenza industriale e manifatturiera. Il governo cinese dell’epoca stabilisce quindi due priorità assolute: semplificare determinate importazioni, fluidificare determinate esportazioni. L’esempio più eloquente è sicuramente lo sviluppo e la manutenzione del “lungo cordone ombelicale” che la collega alle monarchie petrolifere al fine di soddisfare le sue esigenze produttive.
Per quanto riguarda l’Europa questo sembra essere un terreno estremamente favorevole per l’emergere delle ambizioni cinesi. Per avvicinarsi a questa Europa, la Cina basa la sua strategia marittima sui porti euromediterranei. Questi sono tutti i porti europei situati nel Mediterraneo settentrionale, dalla Spagna alla Grecia e a Cipro. La percentuale dei terminali europei controllata da società cinesi è cresciuta costantemente negli ultimi anni. Per avere un’idea quantificata, nel 2007 i terminali container europei sotto la gestione delle società cinesi erano circa l’1%. Nel 2019, questa cifra è aumentata di dieci volte, attestandosi al 10%.
La presenza cinese in questi porti diventa una minaccia o addirittura un attacco alla sovranità delle nazioni europee. Insomma l’aumento della presenza cinese nei porti euromediterranei è il risultato di una strategia di influenza più globale sul mondo. E questa a sua volta è uno strumento per perpetuare gli interessi cinesi. È quindi pienamente comprensibile che Pechino cerchi di utilizzare la liquidità acquisita grazie alla sua economia esportatrice a proprio vantaggio.
Nello specifico Pechino interpreta le nuove rotte della Via della Seta come una soluzione geopolitica che sarebbe in grado di superare i suoi limiti geografici, sociali o persino religiosi. Ma attenzione: se una stretta cinese sul commercio mondiale influenzerebbe indubbiamente molti aspetti geoeconomici del mondo, non possiamo però parlare parlare di “controllo globale” del mondo da parte della Cina. Ma anche se non si può parlare di controllo si può certamente parlare di una crescita di influenza.
Infatti il porto ha un forte simbolismo commerciale, è il ricettacolo delle esportazioni, ma anche la porta verso il continente. Per esempio in che modo l’accesso al porto del Pireo in Grecia apre l’entroterra alla Cina, dando accesso ai mercati dell’Europa centrale e orientale? È essenziale avere una visione globale, al di là dello spazio portuale, per comprendere la configurazione del commercio internazionale contemporaneo, che è caratterizzato secondo il seguente adagio: il mare come supporto, l’intermodalità come principio.
Per fare un esempio concreto, se ordiniamo un computer online di marca HP – presumibilmente prodotto ed esportato dalla Rpc – il nostro computer probabilmente passerà attraverso il porto del Pireo, secondo gli accordi che vincolano la società al porto. Successivamente ci verrà inviato attraverso un sacco di nodi ferroviari, stradali e persino fluviali. Pertanto, è chiaro che l’accesso al porto del Pireo consente di beneficiare della rete di trasporto transeuropea (Rte-T).
Il porto è quindi una piattaforma per la ridistribuzione ai mercati regionali europei, in questo caso, verso l’Europa centrale o orientale. Ma pensiamo anche ai porti di Valencia in Spagna o di Marsiglia-Fos in Francia. Non dobbiamo dimenticare che il Mediterraneo è prima di tutto un incrocio marittimo, con Suez a est, il Mar Nero a nordest – nel mezzo del conflitto russo-ucraino – e Gibilterra a ovest. È quindi un crocevia continentale con il Nordafrica a sud e l’Unione Europea a nord. Il Mediterraneo dà anche accesso al Levante e più in generale al mondo arabo-musulmano, con tutti gli interessi petroliferi che lo legano.
Se proviamo ad adottare una “lunghezza focale” cinese delle relazioni internazionali, lo spazio mediterraneo sembra effettivamente essere l’estremità occidentale della Via della Seta. Da allora si è sviluppato, costituendo la conclusione di una rete portuale che comprende i porti della costa orientale cinese – Ningbo-Zhoushan, Shanghai, Quanzhou, ecc. –, di Kyaukpyu (Birmania), Hambantota (Sri Lanka), Gwadar (Pakistan), Mombasa (Kenya). Il Mediterraneo è quindi il collegamento finale nella catena commerciale posta in essere dalla Belt and Road. E finanziariamente, le società cinesi hanno un enorme vantaggio: quando un container viene caricato a Shanghai, costa 100 dollari in meno se il suo porto di arrivo è euro-mediterraneo rispetto al caso in cui la sua provenienza fosse nordeuropea. Ma il vantaggio è tutto cinese, non certamente europeo.
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